Lo “spirito” della Riforma: dalla divisione alla koinonia, in una diversità riconciliata

Cercare ciò che è comune nelle differenze, o addirittura dei contrasti, e lavorare verso un superamento delle differenze che separano le chiese, è il compito del dialogo ecumenico. Ne parliamo con Placido Sgroi, docente dell’Ise di Venezia.

Il passato non si cambia, ma può cambiare ciò che di esso viene ricordato e il modo nel quale viene ricordato. Così il documento della Commissione bilaterale luterana-cattolica, Dal conflitto alla comunione, in vista dei cinquecento anni della Riforma protestante invita a raccontare la storia in maniera diversa.
Cercare ciò che è comune nell’ambito delle differenze, o addirittura dei contrasti, e in tal modo lavorare verso un superamento delle differenze che separano le chiese, è del resto il compito del dialogo ecumenico. Ne parliamo con Placido Sgroi, docente di teologia ecumenica all’Istituto di studi ecumenici San Bernardino di Venezia.

Nel passato, quali sono stati i principali errori commessi e quali le intenzioni stravolte?
Le ricostruzioni storiche di eventi, anzi di processi plurisecolari, come la Riforma (ma sarebbe meglio parlare di Riforme, dato che anche da parte cattolica vi fu, a partire dal XVI secolo, se non già da prima, un fervente movimento riformatore) sono molto complesse, anche perché hanno coinvolto fino a non molto tempo fa fattori emotivi e identitari che hanno impedito la costruzione di una memoria comune e riconciliata di questi eventi. Salomonicamente bisognerebbe dire che errori e stravolgimenti sono stati compiuti da entrambe le parti, se pensiamo, ad esempio, che l’intenzione di Martin Luther non era certo quella di dividere la chiesa occidentale quanto, appunto, di riformarla dall’interno. L’azione riformatrice di Luther è giunta a un esito non desiderato in seguito a ragioni politiche e, non ultime, di ordine economico. Anche dal punto di vista dottrinale le intenzioni dei riformatori furono, per lo meno, interpretate in modo estremo; per esempio la dottrina della “giustificazione per fede”, che aveva costituito un secolare spartiacque fra mondo luterano e cattolico e che invece è oggi possibile percepire come un fattore di consenso fra le due chiese, con la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione del 1999.

Quali invece le ricadute positive nella vita di fede di tanti cristiani?
Anche in questo caso dovremmo partire da una considerazione di ordine storico: la Riforma protestante e la Riforma cattolica, che ebbe nel Concilio di Trento uno dei suoi fattori propulsivi, costituiscono, entrambe e parallelamente, una cesura rispetto alla tradizione ecclesiale del Medioevo; una “frattura instauratrice di tradizione”, come dice Michel de Certeau. La chiesa tridentina non è meno diversa di quella luterana dalla chiesa medievale. Quindi i processi riformatori hanno agito, in entrambe le realtà ecclesiali, come veri e propri fattori di ecclesiogenesi, consentendo un rinnovamento non solo delle istituzioni ecclesiali, ma anche della stessa vita di fede dei cristiani. Potremmo parlare, in qualche misura, del passaggio da un cristianesimo sociologico a un cristianesimo confessante, per quanto controversista, già nel XVI secolo, a causa del clima di scontro che la divisione ecclesiale produsse in Occidente.

Quale significato è possibile riconoscere, da parte cattolica, nell’evento della Riforma e nei processi religiosi, culturali, politici-economico-sociali a esso in vario modo collegati?
Alla domanda corrisponde il dilemma di fronte a cui si sono trovati gli autori cattolici del documento ecumenico Dal conflitto alla comunione: la Riforma del 1517 è solo da commemorare o anche da celebrare? può un cattolico celebrare i 500 anni di divisione della chiesa d’occidente? è proprio sull’identità della riforma che punta l’interrogativo: se essa aveva come scopo la divisione del corpo di Cristo, ovviamente c’è ben poco da festeggiare, ma se essa aveva come obiettivo, umanisticamente, il ritorno alle fonti della fede cristiana, e ha effettivamente prodotto questo processo di rigenerazione della fede, tanto per i luterani quanto per i cattolici, allora c’è motivo di celebrare insieme, anche in forza del fatto che lo “spirito della riforma”, l’idea di una chiesa in stato di perenne riforma, non ha più abbandonato la cristianità. Certo la cicatrice della divisione resta, essa non è scomparsa, ma costituisce una indispensabile memoria di come gli esseri umani possano porre ostacolo all’azione dello Spirito, sia a livello individuale che collettivo.

Il dialogo ecumenico internazionale ha portato a riscoprire i fondamenti comuni sulle questioni di fede e a comprendere che questi punti non sono più motivi di divisione fra le chiese. Quali sono questi pilastri comuni?
Come abbiamo già accennato, la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, firmata dalla Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale nel 1999 costituisce un pilastro indistruttibile della reale, sebbene ancora imperfetta, comunione fra cattolici e luterani. Essa rivela non solo la possibilità di un accordo dottrinale fra le due comunioni, ma anche un comune approccio al testo biblico e alla sua interpretazione, una convergente comprensione della vita cristiana, alla luce della grazia ricevuta da Dio, una spiritualità che, nella differenza delle pratiche e delle tradizioni, ha radici comuni. Essa è anche un luogo a partire dal quale guardare, e relativizzare correttamente, anche le differenze nelle strutture ecclesiali che ancora dividono cattolici e luterani. Di certo dopo tale dichiarazione, frutto essa stessa di un cammino trentennale, e che ha prodotto ulteriori dialoghi, è difficile dubitare dell’ecclesialità delle chiese luterane.

Il passo successivo è ora la comune testimonianza al mondo di oggi. Come si traduce in concreto questo imperativo ecumenico?
L’esigenza di una testimonianza comune dell’Evangelo è un tema che il movimento ecumenico ha posto da tempi già remoti, in parallelo all’approfondimento delle questioni dottrinali. La testimonianza comune rinvia, maggiormente, a una analisi dei contesti locali in cui le comunità ecclesiali sono coinvolte e impegnate. Essa quindi è destinata a modificarsi nel tempo e nello spazio. La crisi dei migranti sta certo costituendo una sfida importante per le comunità cristiane dell’Occidente, che sembra a tutt’oggi convergere nella richiesta di una politica di generosa apertura ai bisogni di esseri umani in fuga. Non bisogna dimenticare, però, che la possibilità di una testimonianza comune richiede anche di affrontare con coraggio quelle linee di frattura sui temi etici che ancora, troppo spesso, dividono le comunità cristiane; per la verità non solo le une dalle altre, ma anche al loro interno.

La misericordia (siamo nell’anno giubilare straordinario indetto da papa Francesco per i cattolici) è un terreno fecondo?
Rispondo con una citazione di papa Francesco, tratta da EvangeliiGaudium: “La salvezza che Dio ci offre è opera della sua misericordia. Non esiste azione umana, per buona che possa essere, che ci faccia meritare un dono così grande. Dio, per pura grazia, ci attrae per unirci a Sé”. [Francesco, Evangelii Gaudium (2013), n. 112]
Papa Francesco ci mostra, con sintesi felice, come esista un legame profondo fra misericordia e grazia. La misericordia di Dio è pura grazia. Potremmo dire che “misericordia” è un modo per interpretare e attualizzare l’appello a riconoscere nella giustificazione per fede il cuore del messaggio evangelico, che ci viene dalle chiese della Riforma. La misericordia costituisce così, un importante ponte ecumenico.

Oggi, come si costruisce l’unità?
L’unità si costruisce attraverso il riconoscimento reciproco, il riconoscimento dell’essere ciascuna chiesa manifestazione della Chiesa di Gesù Cristo, certo sembra bisognosa di conversione e purificazione. Il riconoscimento è un processo, spesso un processo lento, ma indispensabile, perché non riconoscere il delicato gioco di appartenenza comune e differenza storica che caratterizza le chiese cristiane significa che ciascuna si rende cieca non solo rispetto all’altra, ma anche rispetto a se stessa, alla sua storia e alla sua identità. Non riconoscere l’altro, l’altro come essere umano, l’altra come chiesa è sempre a rischio di essere un segnale di fragilità e chiusura, non tanto di coerenza e testimonianza coraggiosa, se è vero che tutti, come persone e anche come comunità ecclesiali, esistiamo in quanto siamo di fronte all’altro, all’altro come noi e all’Altro per eccellenza. La formula ecumenica di una koinonia delle e fra le chiese, in una diversità riconciliata, riassume bene questo cammino, ancora da percorrere lungamente, di costruzione dell’unità. Un cammino aperto, di cui conosciamo la direzione, che è anche la meta, l’unità, benché abbiamo ancora da definirne le caratteristiche, ma non ancora, almeno del tutto, la strada che dobbiamo compiere. Per questo servono, alle chiese come all’umanità, coraggiosi esploratori del futuro.

Il programma riformatore di Lutero costituisce una sfida spirituale e teologica sia per i cattolici sia per i luterani del nostro tempo. Qual è il ruolo della teologia?
È difficile dire se Martin Luther avesse un vero e proprio programma riformatore, o se piuttosto esso si sia generato, per così dire, lungo la via, condizionato, nel bene e nel male dalle vicende personali del riformatore e da quelle della Germania del suo tempo. Certamente Luther è stato e ha voluto essere un teologo, un uomo a servizio della Parola, un uomo che ha cercato di leggere attraverso di essa i segni dei tempi, richiamando i cristiani a una fede essenziale e personale, motivando accuratamente, ma non con minor passione, le sue critiche alla Chiesa del tempo e le sue proposte di riforma. Così si disegna anche, però, un ruolo per la teologia, che sia allo stesso tempo pensiero rigoroso e appassionato della Parola, pungolo alla Chiesa e appello alla fede personale. Tutto questo, ovviamente, rivolto prima di tutto al teologo stesso, che è il primo destinatario del suo stesso impegno e la cui conversione personale non è accidentale rispetto al suo stesso lavoro scientifico.

Oggi la situazione globale vede i cristiani vivere in ogni parte del mondo in ambienti multireligiosi. Questo pluralismo multireligioso delle nostre società aumenta la necessità dell’ecumenismo?
Il pluralismo religioso è una condizione della nostra società globale che non può lasciare indifferente l’ecumenismo. Il dialogo interreligioso e la teologia del pluralismo religioso sono in se stessi ecumenici. Da una parte perché il mondo cristiano appare agli occhi degli appartenenti alle altre comunità religiose come una realtà ben più unitaria di quanto non la percepiscano i cristiani; essi chiedono di potersi confrontare con una voce cristiana rappresentativa e quindi, in un certo senso, ci costringono all’ecumenismo. Dall’altra lo stesso procedere nel dialogo interreligioso costituisce un potente stimolo ecumenico, perché costringe a pensare e a pensarsi in termini relazionali, di fronte e con l’altro. Pur nella differenza degli obiettivi il dialogo interreligioso costituisce un forte stimolo per un ecumenismo che non voglia diventare esso stesso autoreferenziale o, peggio ancora, illudersi di costruire una qualche forma di “santa alleanza” dei cristiani per la difesa dei valori tradizionali o per fare una barriera comune verso supposte invasioni dello “spazio” tradizionalmente cristiano. Il dialogo interreligioso ricorda a tutti i cristiani la vocazione ecumenica, cioè mondiale del cristianesimo.

In quale modo ne rafforza o ridisegna il ruolo e il compito missionario?
Facendo il verso al titolo di un importante documento del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso degli anni ’90 potremmo dire che “dialogo è annuncio”, questo vale a livello ecumenico e interreligioso. Solo il mettersi in relazione con la pluralità delle situazioni e delle culture, abitandole dall’interno e condividendole con coloro che le vivono quotidianamente, può far assumere all’impegno missionario un volto coerente con quella che è la sua radice fontale, la missio Dei, il movimento di Dio verso l’umanità che ha trovato nell’incarnazione del Figlio il suo punto più alto. Missione è testimonianza di quanto si vive, di fronte e a tutti, ma anche capacità di vedere la presenza del volto di Dio in quello di ogni fratello e sorella, attraverso un processo di apprendimento reciproco della presenza di Dio nella storia e vicenda umana.

 

Paola Zampieri

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