Roberto Repole: papa Francesco e il sogno di una chiesa evangelica

Un’idea semplice e quasi spiazzante: una chiesa capace di confrontare costantemente se stessa, la sua vita, le sue scelte e le sue strutture con la freschezza del vangelo. Secondo il teologo Roberto Repole è qui il fulcro dell’insegnamento dell’attuale pontefice, che segna una fase nuova di recezione del Concilio Vaticano II e traccia una linea continua fino alla più recente esortazione apostolica “Gaudete et exsultate”.

«Il sogno di papa Francesco è in fondo molto semplice e proprio per questo piuttosto spiazzante: si potrebbe, in modo immediato, affermare che si tratti del sogno di una chiesa evangelica, cioè di una chiesa capace di confrontare costantemente se stessa, la sua vita, le sue scelte e le sue strutture con la freschezza del vangelo».

Ad affermarlo è Roberto Repole, direttore della Sezione di Torino della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e docente di Teologia sistematica presso la Facoltà teologica del Triveneto; presidente dell’Associazione teologica italiana e autore del volume Il sogno di una chiesa evangelica. L’ecclesiologia di papa Francesco (Libreria Editrice Vaticana). Il teologo sarà a Padova il 29 maggio 2018, alla Facoltà teologica del Triveneto, per dialogare con il filosofo Massimo Borghesi sul tema Jorge Mario Bergoglio – Papa Francesco: la formazione, il pensiero, l’opera. Biografia intellettuale e sogno di una chiesa evangelica (vai alla notizia) – (leggi l’intervista al prof. Massimo Borghesi).

Professor Repole, qual è e da dove nasce la visione di chiesa che ha papa Francesco? 
È una visione di chiesa che nasce dal vangelo, un vangelo declinato soprattutto nei termini della misericordia, cioè di un Dio che in Gesù Cristo ha cuore per le miserie dell’umanità, per le ferite che toccano la carne delle donne e degli uomini, compresa la ferita del peccato. La chiesa innanzitutto è vista come nascente da questo vangelo e, potremmo dire, anche in atteggiamento di gratitudine per essere quella porzione di umanità che è il primo oggetto di questa misericordia. Ma nello stesso tempo e proprio per questo la chiesa è anche colei che deve rendere disponibile il vangelo della misericordia per tutte le donne e gli uomini del mondo. Per questo ha una grande pregnanza in Francesco l’invito alla chiesa in uscita missionaria, che non può essere ridotta soltanto a una chiesa che annunci verbalmente qualche cosa: è piuttosto una chiesa che, insieme all’annuncio, opera caritativamente nei confronti delle miserie dell’umanità.

Annuncio e opere dunque non vanno l’uno senza le altre.
In alcuni passaggi di Evangelii gaudium, riprendendo anche quello che era già stato detto dal suo predecessore Benedetto XVI, Francesco afferma che annuncio del vangelo e promozione dell’umano non sono cose che possano essere viste come antitetiche. L’attenzione verso una chiesa che “si sporchi le mani”, che sia “ospedale da campo”, per usare le sue metafore, che non abbia paura degli accidentati e anche di essere accidentata, è qualcosa che non ha semplicemente una portata sociologica o economica, ma ha una valenza cristologica e teologica.

Una chiesa “in uscita” non può trascurare nessuna delle sue componenti e soprattutto i laici sembrano dover giocare un ruolo importante.
Un’altra importante direttrice della visione di chiesa di Francesco è il fatto che appartengono alla chiesa tutti coloro che sono credenti in Cristo e battezzati, considerando – come dice spesso lui – che la maggioranza di costoro, cioè del santo popolo di Dio, è costituita dai fedeli laici. Al servizio di questa chiesa stanno coloro che sono i ministri ordinati, ma senza dimenticare che sono appunto al servizio del popolo di Dio, fatto per lo più dai cristiani laici. Proprio perché è fatta soprattutto dai cristiani laici, questa chiesa in uscita, estroversa, annunciante, non può essere “monolitica” ma respira dei diversi incontri che le tante cristiane e i tanti cristiani fanno con le donne e gli uomini del loro tempo.

Lei ha scritto che la visione ecclesiologica sottesa ai documenti principali e agli interventi del pontefice ci fa capire che ci troviamo alle prese con una nuova fase di recezione dell’insegnamento ecclesiologico espresso dal concilio Vaticano II. Può spiegarci questa affermazione?
Francesco è il primo papa che non ha preso parte ai lavori conciliari; egli è però pienamente figlio del Concilio e, a dispetto di quel che sembra, in lui si scorge anche un nuovo momento di recezione di quella grande svolta avvenuta nel Vaticano II con il pensare alla chiesa innanzitutto come mistero, cioè come effetto dell’amore e della missione di Dio stesso. Innanzitutto perché la chiesa è vista come nascente a partire dal vangelo e dal vangelo della misericordia; in questo senso direi che c’è una linea che da Francesco va al Vaticano II pur già in una novità di accento, di apertura, di interpretazione. Ma soprattutto il riferimento nella visione ecclesiologica di Francesco al Vaticano II sta nell’importanza che per lui ha l’idea che la chiesa sia fondamentalmente il santo popolo di Dio.

Qual è il principale accento di novità portato da Francesco?
Nel Vaticano II la categoria principale con cui i padri conciliari hanno parlato della chiesa è presentandola e descrivendola come il popolo di Dio, che cammina nella storia, che – come dice Gaudium et spes al n. 44 – ha da offrire delle cose alla storia ma anche ha da ricevere da essa; dove l’unità dell’essere cristiani e fratelli in Gesù Cristo viene prima della diversità dei ruoli e dei compiti che si possono avere nella chiesa. Oggi mi pare che siamo in una nuova fase di recezione di questa visione ecclesiologica, che in questi cinquant’anni non sempre è stata recepita con linearità e continuità.

La “teologia del popolo”, di matrice argentina, quanto ha influito in questa concezione del “popolo di Dio”?
La novità deriva certamente anche dalla riflessione che sulla categoria del popolo di Dio può aver apportato la teologia argentina, che non a caso viene detta “teologia del popolo”. L’accento che di questo può emergere di più, soprattutto nella Evangelii gaudium di papa Francesco, è il fatto che questo popolo non può che esistere nei diversi popoli della terra, con le loro culture, con le relazioni e i modi in cui questi popoli esistono e si rapportano tra loro. Quindi potremmo dire: un popolo uno e tuttavia plurale. In questo senso il superamento di una visione “universalista” di chiesa, già avviato dal Concilio, trova in Francesco una certa forza con il suo dare importanza alle Conferenze episcopali, chiamate a prendere la responsabilità dell’annuncio del vangelo e delle scelte da fare in ordine all’annuncio del vangelo per le chiese in cui e per cui esse esistono.

Anche nel rapporto che Francesco pone fra dottrina e pastorale, fra vangelo e comunicazione del vangelo, si può riconoscere una radice conciliare? 
Pure in questo caso si mostrano la recezione e il rilancio di un aspetto fondamentale già richiamato dal Vaticano II, e cioè che la rivelazione di Dio all’uomo non è semplicemente una serie di idee che vengono comunicate, ma è il donarsi stesso di Dio per tutti gli uomini di tutti i tempi; e la chiesa è chiamata a rendere presente questo dono di Dio, questa comunicazione della vita di Dio nelle diverse epoche in cui si trova a vivere. Per Francesco è evidente come la dottrina non possa essere semplicemente una serie di idee chiare e distinte che si tratterebbe di comunicare e fare imparare agli uomini, ma piuttosto l’incontro sempre vivo tra Dio e gli uomini. Ciò evidentemente richiede che ci siano delle formule che conservino il mistero e dunque “l’inesauribile trascendenza” di questo dono di Dio per gli uomini, ma nello stesso tempo prevede che la chiesa in tutti i suoi componenti abbia e conservi la freschezza di un annuncio vivo che permetta l’incontro tra Dio e gli uomini. Nell’ultima esortazione apostolica, Gaudete et exsultate, al n. 44 si legge una bella sintesi di questo: «In realtà, – scrive Francesco – la dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi, e le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano».

Paola Zampieri

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