Padova, novembre 2025. Attacchi militari, distruzione, morte di civili, perdite di soldati: si parla continuamente degli effetti delle guerre ma mai delle cause generatrici e di come disinnescarle. È un problema culturale. Oggi, per avere la pace, bisogna cambiare le regole del gioco.
È questo un punto centrale nell’analisi della situazione attuale fatta da Stefano Zamagni, economista, presidente emerito della Pontificia Accademia delle Scienze sociali e docente di Economia politica all’Università di Bologna, nei giorni scorsi a Padova per una lectio magistralis dal titolo La pace contesa, tenuta in apertura del corso di perfezionamento “Antropologia, Bibbia, Religioni: un approccio multidisciplinare (ABRAM)” frutto di una partnership fra l’Università di Padova e la Facoltà teologica del Triveneto.
In questa occasione ci ha rilasciato un’intervista, un dialogo che parte dal tema della pace per affrontare poi gli aspetti fondamentali dell’economia civile, di cui Zamagni è una delle voci più autorevoli, e infine sottolineare il contributo che la riflessione teologica può dare nel processo di “rifondazione” dell’economia.
Oggi nel mondo sono in corso 56 conflitti armati e il Sipri-Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma informa che le spese militari a livello mondiale nel 2024 sono state di 2718 miliardi di dollari, a fronte dei 1290 miliardi del 2001. «È una situazione insostenibile» ha commentato Zamagni.
Professor Zamagni, come legge questa corsa al riarmo?
«La tesi della deterrenza (la logica del dissuadere mediante la minaccia) non funziona più. Essa è valida solo se il conflitto è fra due parti; oggi i contendenti sono almeno sei. Il riarmo di uno Stato per accrescere la sua sicurezza viene interpretato come una minaccia dagli Stati rivali, che saranno spinti a fare altrettanto, anzi di più. In questo contesto, inoltre, assistiamo al fenomeno della “privatizzazione della guerra”: per millenni la gestione dei conflitti armati è stata prerogativa dei re, degli imperatori, degli Stati; oggi invece la guerra è stimolata dal cosiddetto complesso militare-tecnologico, dalle imprese private che ottengono profitti dalla vendita delle armi. Se durante i conflitti gli indicatori di borsa aumentano il valore, è evidente che più armi vengono usate più il processo di generazione delle stesse è destinato a continuare».
Per tentare di uscire da questa situazione è necessario anche un passaggio culturale?
«Bisogna capire che il potere dissuasivo oggi sta nella capacità innanzitutto di comprendere e poi di intervenire sulle ragioni profonde che innescano il conflitto. C’è una pace negativa (assenza della violenza diretta, il cessate il fuoco) e una pace positiva (tesa a ridurre o eliminare le cause della guerra): si deve passare dal peace-making al peace-building, dal fare al costruire la pace. Papa Francesco ha avuto il coraggio di denunciare questa situazione e papa Leone XIV l’ha ripresa parlando nella sua prima apparizione pubblica di “pace disarmata e disarmante”».
Come si costruisce la pace?
«Occorre creare istituzioni di pace, politiche o economico-finanziarie. Paolo VI aveva individuato nello sviluppo “il nuovo nome della pace”. Attenzione che lo sviluppo non è la mera crescita, anche una pianta cresce, ma tiene in armonia anche la dimensione socio-relazionale e quella spirituale. Qui si differenziano i due paradigmi “si vis pacem para bellum” (la teoria della deterrenza, da Eraclito a Hobbes a Schmitt e von Clausewitz: la guerra è un dato di natura e l’uomo non può che contenerla) e “si vis pacem para civitatem” (il riconoscimento che all’inizio c’è il logos, da cui deriva il dia-logos, sulla linea di Aristotele, Agostino, Tommaso, Maritain: la capacità di eliminare le cause della guerra, preparando la civilizzazione, oggi diremmo le istituzioni di pace)».
Lei si è fatto sostenitore della creazione di un Ministero della Pace. Di che cosa si tratta?
«La pace è un progetto di democrazia e, in quanto tale, necessita di un luogo istituzionale a ciò dedicato. Già nel secondo dopoguerra Alcide De Gasperi sostenne l’idea di dare vita al Ministero della Pace, mentre il Ministero della Guerra veniva sostituito dai Ministeri della Difesa e degli Interni. Negli anni Ottanta don Oreste Benzi scrisse che “gli uomini hanno sempre organizzato la guerra; è ora di organizzare la pace” e l’associazione Papa Giovani XXIII da lui fondata con altri rappresentanti di associazioni cattoliche e laiche ne ha raccolto il testimone».
Quali funzioni avrebbe questa istituzione?
«Innanzitutto, dovrebbe riscrivere i libri di storia del liceo e dell’università, perché parlano solo delle guerre e mai della pace ed è lì che gli studenti, a partire dai 14 anni, formano le loro categorie di pensiero. Dovrebbe inoltre predisporre i corsi per la diplomazia – in Italia non abbiamo neanche una scuola superiore della diplomazia – perché qui si formerebbe la capacità di negoziare. Infine, potrebbe organizzare i corpi civili della pace come espressioni della società civile organizzata, cattolica e non. Fra le 73 università italiane una sola, Padova, ha un dottorato di ricerca in peace studies. Fra le 40300 scuole nel nostro paese solo 700 hanno programmi di educazione civica dedicati alla pace. Sono convinto che si possono realizzare istituzioni di pace ed è necessario farlo, perché, citando Wright, “due autentiche democrazie mai si faranno la guerra”: dove c’è vera democrazia non c’è guerra».
Cambiando tema, la sua più recente pubblicazione (Introduzione all’economia civile. Tra il già-fatto e il non-ancora, scritta con Luigino Bruni) fa una sintesi di un percorso che si sviluppa da un quarto di secolo. A che punto siamo?
«L’economia civile nasce a Napoli nel 1753, dall’intuizione dell’abate Antonio Genovesi, che sviluppò una visione del mondo basata sul concetto “homo homini natura amicus”, cioè sull’assunto antropologico che l’altro non è soggetto a me avverso, ma potenzialmente amico. Questo paradigma si contrappone a quello dell’economia politica, che da Adam Smith (1776) in poi considera l’uomo un soggetto che agisce per il proprio interesse in maniera razionale. Quest’ultimo, inoltre, considera l’economia separata dall’etica, mentre il primo vede etica ed economia come due facce della stessa medaglia che si integrano vicendevolmente. Ancora, il fine ultimo dell’economia civile è la massimizzazione del bene totale – l’aumento della produzione, il pil è ciò che conta – e qui nascono le disuguaglianze; l’economia civile ha invece come fine il bene comune, il bene mio assieme al tuo, né contro né a prescindere dal bene degli altri – il momento della produzione del reddito e quello della sua distribuzione non si possono separare».
Perché il paradigma dell’economia civile è stato dimenticato?
«Questo paradigma, nato in Italia dentro la matrice teologica cattolica, fu abbandonato nel corso della storia a favore dell’altro, nato nell’Inghilterra protestante del Settecento. Il paese anglosassone all’epoca, grazie alla rivoluzione industriale, divenne la prima potenza economica del mondo e, di conseguenza, espresse la sua egemonia anche dal punto di vista culturale imponendo la propria visione del mondo. La buona notizia però è che da almeno un quarto di secolo il paradigma dell’economia civile sta risorgendo, non solo in Italia ma anche all’estero. È ormai chiaro che l’economia politica, se ha prodotto grandi progressi e fatto aumentare la ricchezza, ha anche generato disuguaglianze, crisi ambientale, aumento della solitudine esistenziale… Il prezzo che stiamo ora pagando è diventato proibitivo. Comprendere queste dinamiche può favorire il diffondersi del pensiero dell’economia civile».
Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo qual è l’ulteriore lavoro da fare? Qual è il non-ancora dell’economia civile? Che cosa consegneremo alle prossime generazioni?
«Innanzitutto, è necessario cominciare a parlare diffusamente di economia civile all’università, ai giovani fra i 19 e i 25 anni che si stanno formando. Fare ascoltare una sola campana, quella dell’economia politica, è un’egemonia culturale intollerabile: negli studi di economia occorre rendere pluralistico l’insegnamento e la ricerca. Inoltre, bisogna accelerare e diffondere le esperienze e le pratiche che si ispirano ai principi dell’economia civile. Una di queste è “The economy of Francesco”, un progetto lanciato nel maggio 2019 dal pontefice e oggi diffuso in 22 Paesi del mondo; a fine novembre ad Assisi si terrà un incontro internazionale dei giovani che vi aderiscono».
La riflessione teologica, le facoltà teologiche che contributo possono dare nel processo di “rifondazione dell’economia”?
«Da parte del mondo cattolico bisogna ammodernare gli studi di teologia, che hanno programmi obsoleti, certo non sbagliati, ma non più capaci di interpretare la realtà odierna. La teologia come “pronto soccorso” non basta più. Non si può continuare a mettere cerotti ma occorre interrogarsi sulle cause generatrici dei problemi. Il primo a dirlo è stato papa Giovanni Paolo II, nel 1987, nell’enciclica Sollicitudo rei socialis, dove scrive che dobbiamo noi cristiani e cattolici impegnarci a sradicare e modificare le “strutture di peccato”. Ciò significa cambiare il paradigma economico secondo cui ciascuno pensa a se stesso e non semplicemente cercare di aggiustare le cose che non vanno con azioni che non sono risolutive. Occorre andare alle radici dei problemi e dire anche a livello teologico che bisogna agire su quelle cause».
La speranza, posta al centro di quest’anno giubilare, che ruolo gioca nei contesti economici?
«La speranza, secondo Charles Péguy, è la “virtù bambina”, che trascina per mano le due sorelle, la fede e la carità. Ravvivare la speranza è fondamentale. Oggi però dobbiamo parlare di una nuova speranza, declinata sui fini e non sui mezzi, come era invece la “vecchia speranza”. La speranza va interpretata come la virtù che ci permette di capire qual è il fine ultimo verso il quale noi vogliamo tendere e per raggiungere il quale siamo disposti a mettere in gioco le nostre abilità, i nostri sforzi, le nostre intelligenze. Il punto in questione è che la libertà possiede tre dimensioni: libertà da, libertà di e libertà per. La libertà per uno scopo ultimo è la speranza. Dare a tutti, ma soprattutto ai giovani, il senso del proprio vivere è un modo per restituire speranza. Quando una persona sa che ciò che fa è finalizzato a un determinato fine riacquista la speranza e quindi la forza per trascinarsi dietro la fede e la carità».
Paola Zampieri

