Espressioni dell’umanità e dell’uomo, la tecnica e, in particolare, l’intelligenza artificiale (IA) ne condividono l’ambivalenza: possono essere farmaco e veleno. Tra potenzialità e rischi, sullo sfondo si affaccia la riformulazione della domanda evangelica: l’IA è stata fatta per l’uomo o l’uomo per l’IA? Ne abbiamo parlato con don Ferruccio Ceragioli, docente di Teologia fondamentale alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, intervenuto al convegno “Umanesimo artificiale. Sfide e opportunità nell’era dell’IA” organizzato dalla Facoltà teologica del Triveneto con il Dipartimento di Ingegneria industriale dell’Università di Padova (9 maggio 2025).
Copernico ci ha fatto scoprire che l’uomo non è al centro del mondo; Darwin ha collegato la specie umana all’evoluzione; Freud ha mostrato un uomo non completamente padrone dei suoi contenuti mentali. La rivoluzione digitale sembra stia estromettendo l’uomo dalla posizione privilegiata di processare informazioni in modo intelligente. Sembra che l’uomo si stia progressivamente impoverendo. È davvero così?
«La rivoluzione digitale, che Floridi definisce la quarta rivoluzione, sembra in effetti estromettere l’uomo anche dal primo posto della classifica degli esseri intelligenti. Ma questo è un impoverimento o non potrebbe piuttosto essere un arricchimento? Certo, ci sono tanti rischi connessi con l’IA, ma nello stesso tempo non è questa una affermazione della grandezza dell’uomo e del suo mistero? Chi è questa creatura che è capace anche di creare macchine che calcolano ed elaborano informazioni in modo molto più veloce di quanto lui stesso può fare? Inoltre, non bisognerebbe dimenticare che l’intelligenza umana non si riduce solo alle capacità logiche, matematiche, statistiche e alla esecuzione di compiti funzionali, ma presenta tante altre dimensioni. In particolare, come dice il recente documento vaticano Antiqua et Nova, “essa implica l’apertura della persona alle domande ultime della vita e rispecchia un orientamento verso il Vero e il Buono”».
L’uomo ha inventato la tecnica, e quindi anche la tecnologia, l’IA… che hanno un’ambivalenza di fondo, portano con sé grandi attese ma anche grandi minacce, sono farmaco e veleno. Come abitare i nuovi ambienti creati dall’IA? Nella nuova era dell’iperintelligenza (Novacene, secondo Lovelock) sarà l’uomo ad adattarsi alle macchine?
«La tecnologia in generale e la IA in particolare sono espressioni dell’umanità dell’uomo e, come tali, condividono l’ambivalenza che è nell’uomo stesso. Lo sappiamo bene e ne abbiamo conferma ogni giorno: gli uomini sono capaci dei gesti più straordinari di gratuità, di generosità, di dono, ma sono anche capaci delle più terribili ingiustizie e delle più efferate crudeltà. L’IA partecipa di questa ambivalenza, e può davvero essere farmaco e veleno. Rispetto ad altre tecnologie però con l’IA si aggiunge un ulteriore rischio collegato a quello che Floridi indica con la parola “avvolgimento”: è il rischio reale di trasformare il nostro ambiente per renderlo sempre più adattato non all’umanità, ma al funzionamento dell’IA. Nell’evoluzione umana l’uomo si è dapprima adattato all’ambiente, successivamente nell’era che viene definita Antropocene e che è quella nella quale viviamo oggi, è l’ambiente che sembra doversi adattare all’uomo. Il rischio della futura epoca del Novacene potrebbe precisamente essere quello che l’ambiente sia adattato alla IA e non più all’uomo. Di fronte a questa possibilità non bisogna dimenticarsi della lezione evangelica che potremmo riformulare così: l’IA è stata fatta per l’uomo o l’uomo per l’IA?».
Il mondo della scuola e della sanità sono tra gli ambiti più strategici, ma anche rischiosi, in cui l’IA si sta imponendo. Quali opportunità e quali rischi?
«Nell’ambito della medicina le opportunità che l’IA già offre e nel futuro offrirà sono certamente enormi: ma non bisogna dimenticare quello che resta il cuore della medicina e cioè che si tratta di persone che curano altre persone e che né le une né le altre possono essere ridotte o sostituite da bit, da sequenze di 1 e 0 come avviene negli algoritmi della IA. Le persone che soffrono hanno certamente bisogno di diagnosi e di terapie e in questo l’enorme potenziale dell’IA applicata alla medicina può essere di grande aiuto, ma esse hanno anche – e soprattutto – bisogno di relazioni umane di ascolto, di contatto anche fisico, di attenzione, di cura, che l’IA non potrà mai sostituire.
Analogo discorso vale per la scuola: anche qui la relazione personale tra chi insegna e chi apprende resta assolutamente centrale e insostituibile. Certo ci saranno dei cambiamenti, ma è sempre stato così. Per esempio, quando è stata inventata la scrittura alfabetica, come paventava lo stesso Platone, l’uomo ha perso alcune capacità relative alla memoria, ma nello stesso tempo ha guadagnato altre possibilità di pensiero attraverso la lettura dei testi. Così credo che avverrà anche con l’IA: perderemo qualcosa, ma guadagneremo altro. L’esigenza fondamentale mi pare sia quella di educare alla capacità critica di fronte a quanto l’IA può offrire per non esserne dipendenti se non dominati, ma per poterla gestire con libertà e responsabilità».
L’IA, in qualche modo, può essere a servizio dell’umanizzazione?
«Sì, certamente, ma dobbiamo essere anche molto consapevoli dei rischi che essa comporta: per l’ambiente, per il lavoro, per la discriminazione, per il controllo delle coscienze, per la manipolazione politica, per il suo utilizzo nell’ambito militare, per la perdita della dimensione simbolica e così via. Non bisogna idolatrare l’IA e non bisogna assolutamente delegare ad essa la responsabilità delle scelte importanti della vita. Alla crescita esponenziale delle capacità dell’IA dovrebbe corrispondere una crescita analoga della coscienza morale dell’uomo, altrimenti i rischi che vengono indicati da molti potrebbero rivelarsi reali. Solo a condizione che non venga meno la responsabilità etica, tanto nella progettazione quanto nell’utilizzo, l’IA potrà contribuire all’umanizzazione».
La chiesa, nella tradizione, ha valorizzato l’umanesimo abbinato all’evangelizzazione (umanesimo e cultura). Come si colloca oggi l’umanesimo cristiano rapporto con le nuove tecnologie? E in particolare con l’IA? Il cosiddetto “umanesimo artificiale” è compatibile con l’umanesimo cristiano?
«Il recente documento vaticano Antiqua et Nova dice che “l’essere umano è chiamato a sviluppare le proprie capacità nella scienza e nella tecnica perché in esse Dio è glorificato”. Dunque, una affermazione esplicita non solo del fatto che l’IA può contribuire a un vero umanesimo, ma anche a un umanesimo cristiano al servizio del regno di Dio. In questa direzione, anzi, forse le possibilità offerte dall’IA potranno contribuire a superare il divario tra cultura umanistica e cultura tecnoscientifica. E di questo abbiamo molto bisogno: da una parte bisogna riconoscere che anche la scienza e la tecnica fanno parte a tutti gli effetti della cultura umana e dall’altra bisogna riconoscere che non tutto si può ridurre a scienza e tecnica. Qui potrebbe esserci un importante contributo dell’IA per un umanesimo integrale».
La teologia come si pone in questo dibattito? La tecnica può essere anche un “luogo teologico”?
«Sì, certamente la tecnica può e anzi deve essere un luogo teologico e non solo perché, come dice qualcuno, è la questione della nostra epoca. L’uomo in realtà è da sempre tecnologico; non si può pensare a una umanità senza tecnologia. È grazie a essa infatti che l’ambiente naturale diventa ambiente umano e l’uomo si rende, almeno parzialmente, indipendente dalla biologia e dalla natura. Come dice Stiegler, la genesi dell’uomo è genesi della tecnologia e la genesi della tecnologia è genesi dell’uomo. Ma se è così, se davvero la tecnologia appartiene all’essenza dell’umanità, questo significa che essa ci parla e ci rivela qualcosa della intenzione creatrice di Dio riguardo all’uomo e quindi ci manifesta anche qualcosa di Dio stesso».
Paola Zampieri
Fonte: La Difesa del popolo