Farsi prossimo nella carne dell’altro

Giornata di studio – 2 dicembre 2014
Compassione, esperienza umana esperienza divina è stato il tema al centro della giornata di studio svoltasi il 2 dicembre 2014 all’Istituto teologico Sant’Antonio Dottore, promossa dal biennio di specializzazione in Teologia spirituale della Facoltà teologica del Triveneto. Sono intervenuti Umberto Curi (Università di Padova) e Andrea Arvalli (Facoltà teologica del Triveneto).
 
Il filosofo UMBERTO CURI ha avvicinato il tema a partire dal significato del termine compassione, composto da cum e patior (dal greco pasco, patire), «dove è il cum – che dice un legame, una relazione – a riscattare la radice di passione – e quindi l’aspetto più negativo del termine – indicando nella compassione una modalità di incontro con l’altro». «Nel mondo greco – ha spiegato Curi – la compassione è immedesimazione con qualcuno al quale io sento di poter assomigliare. Il sofista Gorgia nell’Elogio di Elena e Aristotele nella Poetica usano il termine eleos a indicare ciò che produce in noi un cambiamento e provoca una trasformazione, avendo alla base un meccanismo di riconoscimento e un rapporto di similitudine e somiglianza se non di identità».
La nozione greco-classica ricompare, e si trasforma, nel contesto del messaggio evangelico. Nel discorso della montagna (Luca 5,7) l’unica fra le beatitudini ad essere costruita come una coincidenza perfetta tra chi si trova in una determinata condizione e il corrispettivo che riceverà, è quella che riguarda i misericordiosi: per la loro misericordia saranno oggetto di misericordia/compassione, che non viene dagli uomini ma da Dio. «Non vi è scansione temporale ora/dopo – afferma Curi – ma è il regno di Dio nella sua attualità. La forza del discorso della montagna è rappresentare come presente e non a venire la condizione dei beati».
Il secondo luogo del Nuovo Testamento con cui misurarsi sul tema è la parabola del buon samaritano (Luca 10,25-37), dove si coglie tutta la differenza fra cristianesimo e mondo classico. «Se per Aristotele la compassione (eleos) è immedesimazione verso qualcuno che mi assomiglia, nel vangelo di Luca essa è invece rivolta a un homo quidam (un uomo qualunque), uno sconosciuto bisognoso di aiuto; di fronte a ciò si “squartano le viscere” del samaritano, che gli si fa prossimo (è grado superlativo: vicinissimo). Essere prossimo – sottolinea Curi – non è una condizione statica e non è semplicemente uno stato d’animo: quello a cui mi ad-vicino lo costituisco come prossimo in quanto mi muovo verso di lui. La compassione è l’andare verso e l’agire verso di lui: la compassione costituisce il viandante mezzo morto come prossimo».
Proiettando queste considerazioni sull’attualità, appaiono delle modalità censurabili nel rapporto con l’altro, in particolare la pretesa che l’altro (ad esempio il migrante) sia uguale a noi o sia accettato solo nella misura in cui diventi uguale a noi. «Subordinare l’accettazione alla rinuncia della propria specificità non è accettare l’altro, ma una proiezione di me stesso – ha concluso Curi -. Amare il proprio nemico (accettare l’altro nella sua originale e radicale alterità) è la quintessenza del messaggio cristiano e ha immediati riscontri di carattere sociale e politico».
 
Il teologo ANDREA ARVALLI ha esordito sottolineando come nel vangelo il nuovo metro di misura per calcolare la prossimità sia a partire da Dio e non da se stessi. «Gesù che tocca il lebbroso (Marco 1,40-45) – ha affermato – ci mostra che Dio comincia sempre per primo ad amare: ama il mondo così com’è e dona una risposta concreta. Non si dà compassione senza concretezza e Gesù fa sempre emergere possibilità  concrete di amare». È un pensiero delirante quello che si illude o pretende di poter distillare forme di vita pura, stati di perfezione, perché è nel dialogo con l’altro che la mia identità prende forma e ciò mi permette di superare le logiche dicotomiche e le forme di discriminazione e intolleranza. «Tutto ciò che esiste ha una storia, un divenire – ha spiegato Arvalli – Occorre recuperare questa porosità e commistione, ritrovare l’abbraccio e il mescolamento perché nessuno di noi è se stesso senza un coro di altri che interloquiscono e ci tolgono dalla nostra autoreferenzialità».
Il presentarsi inatteso dell’altro è una domanda alla mia libertà: saprò lasciarmi coinvolgere, corrispondere? «Se il dolore dell’uomo ferito lungo la strada scuoterà la mia indignazione e la mia preoccupazione, – dice Arvalli – allora scoprirò che la mia carne fragile, ferita, spaventata, contingente, non si salva attraverso una pretesa immunità falsificata, ma divenendo carne comune, espropriata, solidale. Nel cuore dell’itinerario spirituale del credente entra in gioco la sua capacità di relazione, la sua capacità di creare relazione con la sofferenza dell’altro». Vedere il dolore dell’altro e spogliarsi per aderire ad esso è ciò che ci rende prossimi all’altro e ci porta a dare una risposta: è un amore che diventa responsabilità. Allora il credente può rivolgersi verso Dio e rendergli culto partendo dalla persona umana.
«Il samaritano diviene epifania di un bene senza perché, un bene generato nello Spirito, in cui un cuore di carne si sostituisce al cuore di pietra e la creatura umana collabora con l’amore divino. In Gesù si rivela un divino che si mescola con l’umano e cura la carne ferita, si fa verità crocifissa. Ogni volta che anche noi siamo capaci di uscire dalle nostre identità morendo a noi stessi, e nasciamo a vita nuova per e con gli altri – ha concluso il teologo – diamo a Dio la nostra carne perché egli ripeta, in noi, la sua incarnazione».
 
Paola Zampieri
 
 
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