Pensare le culture fra unità e diversità

A un mondo in cui Occidente e Oriente sono ormai simbioticamente intrecciati l’uno all’altro si addice un’etica interculturale e contestuale, la cui prospettiva si arricchisce nel continuo confronto fra le civiltà e le religioni. Ne hanno parlato Enrico Riparelli e Marcello Ghilardi a “Dove va la morale?”.

Oggi non è più sufficiente pensare alle culture in termini di unità (universalità) o diversità (particolarità) delle culture, dobbiamo ormai pensarli insieme: unità e diversità. È stato questo il fulcro della riflessione portata da Enrico Riparelli, docente di interculturalità e religione all’Istituto superiore di Scienze religiose di Padova, al terzo appuntamento del ciclo di conferenze Dove va la morale?, organizzato da Facoltà teologica del Triveneto e Fondazione Lanza, che il 16 febbraio 2017 ha messo a tema Bene e male, tra Oriente e Occidente. Nel dialogo con Marcello Ghilardi, ricercatore dell’Università di Padova, Riparelli ha scelto l’esempio particolare dei diritti umani per affrontare la questione del rapporto tra Oriente e Occidente. [file audio degli interventi >]

«I diritti umani rappresentano sin dalla loro origine nella storia e cultura occidentale un discorso universalistico, teso all’inclusione illimitata – ha spiegato – ma è un discorso sempre più contestato dalle culture altre (quelle orientali che fanno riferimento ai cosiddetti “valori asiatici”) nonché da intellettuali occidentali, perché i diritti umani non rispetterebbero le particolarità culturali e religiose, ossia le diversità. Il problema del rapporto tra universalizzazione e regionalizzazione dei diritti umani illustra bene il problema della comunicazione interculturale tra Oriente e Occidente».
Certo, va tenuto conto che l’uso delle categorie Occidente-Oriente rappresenta una visione binaria, bipolare del mondo, un’endiadi originaria – secondo il filosofo Giacomo Marramao – costitutiva dell’identità europea e non riscontrabile nelle civiltà dell’Asia se non in tempi recenti. Si aggiunge poi la costitutiva varietà dell’Oriente, che contiene il 60 per cento della popolazione mondiale e quindi valori, culture e religioni estremamente diversificati. «Considerare l’Asia una unità è una prospettiva tipicamente eurocentrica» ha rilevato Riparelli citando Amartya Sen.
Ma la categoria “diritti umani”, coniata dalla cultura occidentale, è comprensibile all’interno di tradizioni culturali diverse? Il diritto, che già è diventato un veicolo di scambio nel dialogo fra Oriente e Occidente nell’ambito economico e politico, scientifico e tecnico, incontra invece resistenze più forti nel caso di altri elementi, perché il diritto è intrinsecamente connesso a una sfera di valori. Il percorso di affermazione dei diritti umani, in particolare l’idea assolutamente egalitaria comprensiva di tutti gli esseri umani, ha avuto un apporto prevalentemente occidentale e ha trovato critiche nei cosiddetti valori asiatici (incarnazione di varie virtù cardinali del confucianesimo): il primato degli interessi collettivi rispetto a quelli individuali, la convinzione che la libertà non sia un diritto assoluto, la preferenza per il consenso, non conflitto. «La via corta della risposta apologetica e polemica non è però soddisfacente – afferma Riparelli –. È oggi necessario ricavare dalla discussione interculturale sui diritti umani gli elementi in grado di arricchire la prospettiva. È la via lunga del confronto fra le civiltà e le religioni che può portare a un consenso per intersezione sulle conclusioni pratiche».
Seguendo Charles Taylor, Riparelli conclude facendo notare che, contrariamente a quanto pensano in molti, una convergenza mondiale sui diritti umani non si produrrà dalla perdita o rifiuto delle proprie tradizioni, ma piuttosto da una immersione creativa (che significa anche critica, cioè prendere le distanze) nella propria eredità spirituale, percorrendo differenti sentieri per raggiungere la stessa meta.

«È questa l’etica interculturale adatta a un mondo in cui Occidente e Oriente sono ormai simbioticamente intrecciati l’uno all’altro, perché oggi esistono più Orienti e più Occidenti – e non tutti gli Orienti sono necessariamente in Oriente e non tutti gli Occidenti sono necessariamente in Occidente».

Concorda Marcello Ghilardi, docente di estetica all’Università di Padova, sul fatto che Oriente e Occidente non possano essere considerate due categorie nette, esclusive, geografiche e nemmeno teoretiche; si tratta piuttosto di categorie antropologiche: due polarità, due modalità di approccio e due percorsi.
Il plesso bene/male – ha spiegato – può essere visto in tre modi: come principi contrapposti (manicheismo, dualismo: due realtà reciprocamente escludentesi); come modalità etiche della coppia essere e non essere (non essere come privazione di essere; male come lacuna all’interno dell’essere); rapporto tra un positivo e un negativo, cioè due polarità cooperanti. «La modalità occidentale – spiega Ghilardi – tende a drammatizzare il dualismo, il conflitto fra bene e male (la narrazione biblica fa emergere il soggetto), la modalità orientale (soprattutto cinese) tende invece a descriverlo (nella polarità cooperante emerge un processo, che mira a comprendere la globalità, ad abbracciare quanta più realtà possibile, a integrare i punti di vista; è una logica polare integrativa).
Dove prevale il dualismo, l’essere umano si confronta col limite; nello stare di fronte all’enigma con-siste: è la dimensione metafisica, l’elevarsi al di sopra del fisico, propria della filosofia (come rendere ragione del male) e della tragedia greca (che chiama allo spogliamento di sé). La visione polare mostra invece correlazioni, scioglie le tensioni, descrive le possibilità del vivere di darsi attraverso un pieno e un vuoto. «Di volta in volta queste risorse di significato sono state fatte prevalere dagli uomini. È importante tenerle assieme» sostiene Ghilardi.
In questo senso Ghilardi afferma anche quella che, secondo lui, è la prevalenza dell’etica sulla morale.

«Se vedo la morale come un sistema codificato di valori e prescrizioni, l’etica mi appare invece come la capacità di usare criteri senza irrigidirsi in codici troppo fissati una volta per tutte. L’etica sa essere contestuale, sa leggersi nell’interiorità. Le linee tendenziali non possono diventare troppo rigide per poter affrontare con strumenti e categorie diverse la realtà che si presenta. Le culture, le lingue, le persone si evolvono nel tempo, si trasformano a contatto le une con le altre, per restare vive».

Paola Zampieri

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