L’edizione 2015 del convegno accademico annuale della Facoltà teologica del Triveneto si è svolta giovedì 29 ottobre in un’aula magna gremita di docenti, studenti e pubblico interessato a comprendere come si coniughino “Fratture e riconciliazione”. Un tema scelto «in sintonia con l’anno giubilare della misericordia indetto da papa Francesco e con il tema dell’ormai prossimo convegno ecclesiale nazionale di Firenze – come ha spiegato il preside, Roberto Tommasi, nel saluto iniziale –. È anche l’espressione dell’impegno della teologia a rimodulare il proprio discorso attorno a tre istanze fondamentali: la cultura dell’incontro, il farsi carico dei conflitti, l’abitare le frontiere».
Dopo il ricordo di due docenti recentemente scomparsi – il biblista Rinaldo Fabris di Udine e il teologo fondamentale Davide Zordan di Trento –, i lavori della mattinata sono entrati nel vivo con la prima delle tre relazioni in programma: Lotto dunque sono: itinerari fra conflitto e riconciliazione, del filosofo Rocco d’Ambrosio, della Pontificia Università Gregoriana. È stata innanzitutto scandita la differenza tra due termini che spesso usiamo come sinonimi: conflitto e lotta. Mentre il primo richiama violenza, sopraffazione, guerre, abusi… il secondo dice una categoria antropologica, fondamentale del nostro vivere: lotto dunque sono. Le scritture cristiane e la classicità greca ci parlano di un’aggressività radicata nel nostro cuore (“Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli”, Lc 11,13), di pulsioni che, non governate, generano il caos nell’anima (Platone). Contenere, limitare, non reprimere, ciò che è cattivo costituisce il processo educativo che ci porta a lottare in maniera “sana” dentro quella dinamica che connota il creato.
Nel contesto sociale e politico, ha spiegato poi D’Ambrosio, la guerra è la consacrazione del conflitto che annulla i fondamenti etici ed esaspera la distinzione amico/nemico. Per uscire da questa logica è necessario imparare a vedere non nemici ma avversari e per questo occorre dialogare, cioè trovare la parola che sta in mezzo e che ci permette di lavorare assieme, con un discernimento costante, lottando tutti per una finalità giusta, pensando e ripensando percorsi di misericordia e di riconciliazione. Così si costruisce il bene delle istituzioni, che è anche il bene della persona e della comunità.
Il secondo intervento, dal titolo “Ma il dono di grazia non è come la caduta (Rm 5,15)” Dall’Adamo “frantumato” al Cristo ricapitolatore è stato proposto dal teologo Francesco Scanziani della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Poiché la qualità cristiana della relazione dell’uomo con Dio è filiale (Dio è padre, l’uomo è figlio di Dio e fratello degli altri uomini), il peccato è frantumazione, divisione, corruzione del legame filiale con Dio e, di conseguenza, del rapporto fraterno con gli uomini e della relazione con il creato. La riconciliazione è opera di cui è protagonista Cristo, che riconcilia in sé l’umanità che ha creato: riconciliare non è rabberciare, aggiustare, ma è la realizzazione del progetto di Dio.
Dentro questo sguardo cristologico, la riconciliazione non è un evento puntuale, non è separato da un prima e da un dopo, ma è un percorso dinamico, in cui lasciarci condurre per mano, tappa dopo tappa, da Cristo. Il perdono, lontano da essere un impulso emotivo, segue invece un cammino previo e genera una storia nuova; è un percorso liberante, – ha concluso Scanziani – che risponde al male con il bene e non riporta a qualcosa di vecchio, ma ci fa essere figli del Padre e fratelli fra noi, quindi ci fa essere noi stessi.
In una società che con facilità oggi si dice “liquida”, c’è qualcosa che troppo liquido non è: il male. A sostenerlo è stato il criminologo Adolfo Ceretti, dell’Università degli studi di Milano Bicocca, nella relazione Paradigmi di riconciliazione nel campo della giustizia. Nel corso del Novecento si sono consolidati i concetti di danno e di risarcimento e le politiche di assistenza per le vittime di violenza; se ciò è importante, rischia però di confinare la riparazione del male nella forma monetaria, nella pena carceraria. Si può cercare di fare uno sforzo in più, sostiene Ceretti: «Il male va incontrato e riconosciuto dalla vittima, perché lo possa elaborare, ma anche dal reo». Soffermandosi volutamente sul reo (e senza sminuire il valore della sofferenza della parte lesa, ha tenuto a precisare) il criminologo ha portato la sua esperienza. «Male e bene fanno parte dell’esistenza. Il male è un gesto che avviene in ascolto di una dimensione interiore. Prima, durante, dopo aver commesso un attacco al corpo di una persona rileviamo un aspetto ricorrente: la cancellazione dell’altro, una de-umanizzazione, de-cosificazione dell’altro. Chi commette del male è una persona che soffre terribilmente (certo, non è sullo stesso piano di chi lo subisce) e in questa complessità si possono mettere in atto modelli di giustizia riparativa». Come? «Mediare un conflitto, in quest’ambito, significa costruire una terzietà impersonale che lavori sulla sofferenza delle due parti». Una “giustizia orizzontale”, “dialogica”, dove si creano spazi e tempi in cui elaborare, attraverso la parola e lo scambio di narrazioni personali, le sofferenze subite e inferte. «La giustizia riparativa e la mediazione reo-vittima sono una giustizia che cura i conflitti e aiuta a dare un nuovo nome ai gesti di spregio per iniziare a ricostruire la propria storia».
Il convegno è proseguito nel pomeriggio, con la proposta di sei laboratori che hanno affrontato da un punto di vista più pratico-esperienziale i temi sviluppati nella mattinata: Processi di riconciliazione ecclesiali e pastorali; I legami spezzati nella vita familiare e la riconciliazione; Il torto subito e la misericordia nei rapporti interpersonali; La riconciliazione dei popoli, ricordando la Grande Guerra e la prospettiva europea; La riconciliazione nell’ecumenismo e nel dialogo interreligioso; Il sacramento della penitenza e la riconciliazione.
Paola Zampieri