L’assegnazione del premio Nobel per la fisica 2021 agli scienziati Giorgio Parisi, Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann «per i loro contributi innovativi alla nostra comprensione dei sistemi fisici complessi», ha richiamato l’attenzione sul tema della complessità. Per una felice coincidenza l’argomento era già stato scelto da Facoltà teologica del Triveneto, Università di Padova e Fondazione Lanza come filo conduttore del corso annuale di formazione e aggiornamento per gli insegnanti, che si terrà a marzo 2022. Una proposta che giunge alla decima edizione e ha finora coinvolto circa 720 partecipanti, di cui oltre il 90 per cento sono docenti delle scuole di ogni ordine e grado, principali destinatari della proposta, nata proprio come forum per approfondire e discutere temi da portare poi in classe e da trasmettere agli studenti. Con l’obiettivo quindi di formare le nuove generazioni a un pensare fondato e libero su argomenti quali la cosmologia, l’evoluzione biologica, le neuroscienze, la rete internet, l’ecologia, i risultati raggiunti negli ultimi anni dalle scienze fisiche, la probabilità. A questi si aggiungerà quest’anno la complessità tra riduzionismo e antiriduzionismo, che sarà declinata nell’ambito della scienza, della sociologia, dell’etica e della teologia (programma e iscrizioni).
Sul tema della complessità abbiamo intervistato Roberto Battiston, docente di Fisica sperimentale all’Università di Trento, che interverrà nell’ultimo appuntamento del corso e coordinerà il panel Complessità a confronto coinvolgendo tutti i relatori intervenuti (Amos Maritan, Vincenzo Pace, Antonio Da Re e Simone Morandini).
Società, ambiente e tecnologie sono tre ambiti in cui la complessità lancia sfide all’uomo d’oggi.
Partiamo dal tema dell’educazione e della formazione in un contesto sociale dominato dalla rivoluzione digitale: il web, i ritmi sempre più veloci, la quantità crescente di informazioni, sempre più dettagliate, delle tipologie più disparate e di variabile affidabilità…
«Il ruolo dell’educazione e della formazione è tanto più importante quanto è più grande la complessità di ciò che ci circonda. La questione centrale è però sempre la stessa: non dobbiamo insegnare a cosa pensare, bensì a pensare bene. Lo sviluppo tecnologico permette oggi un accesso istantaneo a una quantità inimmaginabile di informazioni. Ma se non sappiamo pensare bene, vale a dire in modo critico, scientifico, rigoroso, l’informazione diventa inutile per non dire dannosa: la nostra specie è alle prese con una bulimia informativa che non è mai esistita nella storia dell’umanità e rischia di esserne travolta, come i batteri cianogeni che nel nostro pianeta si sono riprodotti così tanto da finire soffocati dall’ossigeno, scoria del loro metabolismo».
Come agisce questo mondo complesso sulla società in generale e in particolare sui giovani?
«Questa è una domanda che dovrebbe essere rivolta a loro! Posso solo rispondere confrontando le esperienze della mia gioventù con il contesto in cui penso vivano i giovani d’oggi. Mi viene in mente il desiderio di libri di autori stranieri o di libri scientifici introvabili in Italia, fare autostop senza preoccuparsi di chi ti dà un passaggio e attraversare così l’Europa low cost. Oppure partite a scacchi fatte con le cartoline postali, tante lettere d’amore scritte con la penna stilografica o con la macchina da scrivere, un rapporto imbarazzato, lento e complicato con l’altro sesso. Ora penso che i giovani non leggano quasi più libri di carta, ma piuttosto frammenti di testi su schermi digitali. Non hanno bisogno di libri scientifici, spesso la risposta la trovano in rete. Hanno un rapporto con il sesso molto più libero, al limite della superficialità. Viaggiano in aereo come fosse un autobus ma non fanno più l’autostop. Come vede non riesco a rispondere alla sua domanda, riesco solo a collegare frammenti diversi di un mondo di cui mi ricordo, con frammenti di un mondo che riesco solo a immaginare senza però conoscerlo. Sono convinto che provano sentimenti e passioni, ma non conosco la loro lingua e non riesco a descrivere i loro rapporti. Sono diversi, perché il mondo in cui vivono è diverso. Per questo dovrebbero essere messi alla prova, responsabilizzati e non risparmiati dalla fatica del dovere. Noi non siamo più adatti al mondo che abbiamo prodotto, prima ci mettono le mani loro e meglio è. Per esempio, sui cambiamenti climatici sono molto più avanti dei loro genitori, ma non hanno il potere di intervento che sarebbe necessario».
Fra digital divide (persone anziane o con disabilità, isolate dalla e nella società) e nativi digitali (giovani e giovanissimi iperconnessi) scorre un abisso. Quale “scarto” produce questo divario nella società – pensando anche alle parole di papa Francesco?
«L’essere umano è infinitamente adattabile e ciascuno di noi ha parti della realtà che gli sono sconosciute. Per cui non è poi così terribile che ci sia un digital divide se prevale il senso di appartenenza alla stessa società. Senso che non può essere legato alla conoscenza o meno di una tecnologia ma a fattori molto più umani come il passare tempo assieme, raccogliere il testimone della saggezza dell’esperienza, raccontare le meraviglie dell’oggi e del domani alla generazione che ti ha preceduto».
La società è cambiata e sta cambiando in fretta. In questo contesto cambia anche il modo in cui si sviluppa il processo formativo delle nuove generazioni?
«Sì e su questo ci vorrebbe una formazione dei formatori. Mi pare che siamo rimasti all’età della pietra da questo punto di vista, considerata la velocità dell’evoluzione delle tecnologie e delle opportunità che vengono rese possibili».
Quantità delle informazioni – qualità delle relazioni – senso delle cose – tempo: quale rapporto lega questi aspetti?
«Il tempo prima di tutto. Oggi il tempo è la cosa più preziosa. Nella mia gioventù il tempo era abbondante, una cascata di tempo da perdere, senza farci troppo caso. Molto tempo per fare esperienze, esperienze per comprendere il senso delle cose. Tempo per creare relazioni profonde con altre persone, amicizie, amori. Qualità delle informazioni, non quantità».
Una seconda grande sfida del tempo che viviamo è quella dei cambiamenti climatici, segno dell’equilibrio che si è rotto fra l’uomo e l’ambiente. Oggi è assodato che la causa del riscaldamento del pianeta è dovuta all’immissione nell’atmosfera dei gas serra da parte delle attività produttive umane.
Qual è il senso di ciò che sta accadendo al clima?
«È un fenomeno normalissimo per il nostro pianeta. Abbiamo cambiato del 30% un parametro, il contenuto di CO2 e dei gas serra nell’atmosfera, fra i tanti che caratterizzano il clima in questo periodo dell’evoluzione del nostro pianeta. Stiamo parlando di un parametro che vale solo circa 3 parti per 10.000 nella nostra atmosfera! Eppure questo cambiamento è bastato a mutare in modo sostanziale il clima del globo e siamo solo all’inizio di questo fenomeno epocale. Si tratta letteralmente di una storia di apprendisti stregoni, di una umanità che come ha sempre fatto da quando l’homo sapiens esiste, ha consumato risorse per sopravvivere e ottenere una qualità della vita migliore, incurante degli scarti che allo stesso tempo produceva. Lo sviluppo tecnologico, economico e industriale è stato straordinario ma altrettanto straordinario è stato l’effetto sul pianeta. In questo caso, però, come abbiamo fatto in altre occasioni, non possiamo spostarci e abbandonare i luoghi da noi resi inabitabili per dirigerci verso nuove terre promesse. Non c’è un pianeta B. E ora dobbiamo capire cosa fare perché l’alterazione di un equilibrio che durava da almeno 10.000 anni è ormai sostanziale, con effetti di ogni genere, un trionfo della complessità, se vogliamo, ma proprio per questo difficile da governare».
Sono soprattutto i paesi poveri a pagare per gli effetti del cambiamento climatico: incendi, allagamenti, ondate di calore, innalzamento dei mari, eventi meteorologici estremi…. È stimabile questo costo?
«Sì è stimabile ed è insostenibile, perché dobbiamo renderci conto che siamo solo all’inizio di una serie di fenomeni collegati uno all’altro e che già nel corso di una generazione sono cambiate moltissime cose, abbiamo perso moltissimi ghiacciai, sono scomparsi grandi laghi interni come il lago d’Aral, il ghiaccio del polo Nord si è ridotto in modo sostanziale, pezzi dei ghiacciai della Groenlandia sono finiti in mare, il permafrost della Siberia si sta disfacendo. Con la scomparsa di migliaia e migliaia di specie viventi, il moltiplicarsi degli eventi estremi, l’inquinamento delle microplastiche nei mari e via dicendo. A ognuna di queste catastrofi è possibile associare un costo in termini sociali ma non ci vuole molto a capire che gli effetti sono più gravi per le parti più deboli e fragili delle società, quelle che vivono al margine della povertà».
Con quale sguardo e da quale punto di vista dobbiamo affrontare il problema?
«L’umanità è l’artefice del suo futuro nella misura in cui riesce a liberarsi dalle catene dell’ignoranza e dai demoni che la rendono cieca. Se da una parte i problemi sono causati da una molteplicità di comportamenti sbagliati, per lo più dovuti a ignoranza e abitudini, la soluzione può solo essere trovata grazie a una molteplicità di azioni correttive, che coinvolgono tutti i livelli della società a partire dai singoli individui».
Quali sono gli strumenti più efficaci che abbiamo a disposizione per contrastare il fenomeno?
«Il pensiero razionale, sostenuto dalla conoscenza e dalla scienza. Gli strumenti ci sono; sono i comportamenti che devono essere corretti».
A prendersi cura della casa comune non basta però la scienza (che peraltro denuncia il problema dagli anni Settanta). Quali sinergie è necessario attivare?
«Occorre una alleanza tra scienza e politica, che parta dall’investimento nella formazione delle nuove generazioni e porti alla modifica di un modello di sfruttamento delle risorse e dell’ambiente che sta distruggendo la casa in cui viviamo. Ma abbiamo perduto troppo tempo e ogni azione è ora urgente».
La terza sfida è data dal rapporto fra uomini e robot. C’è una rivoluzione che cresce a velocità esponenziale e che sta cambiando il ruolo dell’individuo nella società: l’intelligenza artificiale (AI). Studiata a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, ha avuto una straordinaria ripresa negli ultimi vent’anni, spinta soprattutto da interessi di mercato, finanziari e militari.
In breve, che cos’è l’AI?
«Una definizione potrebbe essere la seguente: fornire ai computer un database di comportamenti umani per la soluzione di dati problemi, tale da permettere alle macchine di imitare così bene i nostri comportamenti da riuscire a svolgere meglio di noi alcune funzioni».
Qual è il potenziale di questi sistemi artificiali intelligenti?
«Enorme nella soluzione di problemi specifici».
E qual è il limite?
«Trascurabile nella capacità di sintesi e di trovare un senso nelle cose».
Quindi qual è il posto dei robot nel mondo degli esseri umani?
«Dovrebbe essere quello di renderci meno faticosa la vita, ma spesso si ha l’impressione che la renderanno più faticosa a molti e meno faticosa a pochi. Decine di milioni di persone dovranno cambiare lavoro a causa di queste nuove tecnologie. È vero che altre decine di milioni di persone troveranno nuovi tipi di lavori, ma non si tratterà delle stesse persone».
Alla crescita esponenziale dell’AI e della rivoluzione tecnologica che essa comporta, però, attualmente non corrisponde un’analoga intensità nello sviluppo di un pensiero fondativo relativo agli aspetti etici e giuridici di questo tipo di tecnologie e alle loro conseguenze sociali e individuali. Quali caratteristiche dovrà avere e su quali principi si dovrà fondare un contesto normativo in questo campo?
«Io penso che la riflessione di Asimov nel racconto “Io, robot” sia ancora attuale. I robot devono essere al servizio dell’uomo. Punto».
Si aprono quindi prospettive straordinarie ma anche sfide straordinarie: dovremo costruire un nuovo umanesimo anche in rapporto alle nuove macchine intelligenti oltre che agli altri esseri umani?
«Senza dubbio, sfide che richiedono il meglio che l’umanità sappia dare. Per questo scienza e umanesimo dovranno operare insieme, per permetterci di essere al livello della sfida».
Paola Zampieri