Nel 2001 “Studia patavina”, la rivista della Facoltà teologica del Triveneto, ha ospitato uno dei rari contributi di David Tracy reperibili in lingua italiana, frutto di una conferenza svoltasi a Padova (dal titolo “La rinominazione postmoderna di Dio come incomprensibile e nascosto” – clicca qui per leggere l’articolo) in cui egli riprendeva una delle sue principali tesi, relative al criterio con cui interpretare i testi biblici.
Il direttore della rivista, Stefano Didonè, traccia un profilo del teologo statunitense venuto di recente a mancare (29 aprile 2025).
Con David Tracy (1939-2025) scompare non solo uno degli ultimi discepoli di Bernard Lonergan, il “grande metodologo della teologia”, ma anche una delle figure più rappresentative del panorama teologico cattolico nord-americano degli ultimi trent’anni. Per poter parlare ancora di Dio in un contesto radicalmente pluralistico come quello postmoderno, osserva Tracy, occorre riconciliarsi con il carattere frammentario e sempre aperto del discorso teologico, per cui esso necessita di svilupparsi in una prospettiva ermeneutica aperta e mai “definitiva”. Comprendere è interpretare. Ciò non è esente da rischi, ma la mera ripetizione solitamente non appare mai come la vera traditio.
Una teologia pubblica nella città secolare
Fin dalle prime opere la produzione del teologo di Chicago si caratterizza per la costante e decisa ricerca di un nuovo modo di accreditare la teologia nel contesto pubblico secolare, interpretando la tensione feconda tra modernità e postmodernità come opportunità per elaborare una nuova metodologia e un nuovo linguaggio per pensare Dio, alternativo rispetto alle forme più convenzionali della tradizione cristiana. Questa mossa iniziale si esplicita attraverso l’individuazione di un’analogia tra la rivelazione di Dio, testimoniata nella tradizione cristiana, e quella rinvenibile nelle comuni esperienze della vita, comprese le esperienze-limite. Da questa analogia nasce il metodo della correlazione critica (paradigma critico-correlazionale), metodo che innerva tutta la sua produzione teologica, purtroppo in buona parte ancora non disponibile al lettore italiano. Alle tradizionali “fonti” della teologia Tracy affianca progressivamente nuove “fonti”, ricavate sia dalle Scritture (i profeti e i mistici), sia dalle forme linguisticamente “trasgressive” della cultura.
Un nuovo rapporto con i “classici”
Mentre i critici di Tracy vedono in queste opzioni il privilegio (e il debito) verso la dimensione linguistica rispetto a quella contenutistica nel discorso teologico, per il teologo nordamericano la complessità dell’esperienza umana appare irriducibile rispetto ai canoni del discorso teologico concettuale. Ciò non significa misconoscere il valore del “classico”, che Tracy recupera dal pensiero di Gadamer: «I classici producono su di noi un effetto che ci conquista per il valore di verità che scopriamo in essi, e questo è ciò che conferisce loro autorità davanti a noi. Pertanto le esperienze culturali o classici possono avere un valore normativo». Il metodo critico-correlazionale consiste in questa articolazione delle correlazioni critiche tra l’evento dell’esperienza religiosa, espresso nei classici, e la situazione concreta.
La ricerca di una nuova “forma”
Il rapporto di correlazione, che fonda metodologicamente la ricerca teologica di Tracy, diventa un approccio teologico-fondamentale di tipo cristomorfico e non più cristocentrico. Che cos’è il “cristomorfismo” per Tracy? Non si tratta altro che del tentativo di riplasmare la forma dell’esperienza cristiana nel contesto della contemporaneità, andando oltre il cristocentrismo della teologia barthiana, il quale rischia, nonostante i meriti, di soggiacere all’ambivalenza dell’idea stessa di centro, partecipe delle derive colonizzatrici e dell’ossessione di controllo della cultura moderna. Il paradigma “cristomorfico” dovrebbe invece consentire di esprimere la singolarità cristiana mostrando anche come essa entra in relazione con il contesto culturale postmoderno, segnato da un pluralismo radicale.
La chiave etico-politica
Il riscatto del carattere frammentario della teologia non comporta necessariamente una svalutazione del cristocentrismo, ma la sua interpretazione in chiave etico-politica. Con Lévinas, Tracy concorda nel ritenere che il tema principale anche per la teologia è l’alterità in senso etico-politico: la faccia dell’altro autentico dovrebbe liberarci dal desiderio di totalità e aprirci ulteriormente a un vero senso di infinito per nominare e pensare Dio. Questo carattere di indeterminatezza del discorso teologico si trasforma spesso in Tracy in un’apologia della cultura in nome del giovanneo “Dio è amore”. Questa apologia esige un’ulteriore elaborazione teorica, come anche la stessa raccolta dei “frammenti” auspicata dal teologo della Chicago School.
Una teologia più consapevole
Nel 2001 Studia patavina ospitò uno dei rari contributi di Tracy reperibili in lingua italiana, frutto di una conferenza svoltasi a Padova (D. Tracy, La rinominazione postmoderna di Dio come incomprensibile e nascosto, in StPat 48 [2001] 7-17) in cui egli riprendeva una delle sue principali tesi, relative al criterio con cui interpretare i testi biblici.
Posto che l’analisi più organica del pensiero di Tracy rimane il pregevole lavoro di D. Balocco, Dal cristocentrismo al cristomorfismo. In dialogo con David Tracy (Glossa, Milano 2012) le brevi considerazioni qui abbozzate rinviano a una valutazione più puntuale e complessa della parabola teologica di questo di un teologo definito da qualcuno – se a torto o ragione lo dirà la storia – come “lo Schleiermacher del nostro tempo”. Certamente, insieme a Claude Geffrè, David Tracy rappresenta quel fronte della teologia che ha cercato di ripensare continuamente se stessa, anche a costo di eccedere o di sbagliare. D’altra parte, come osserva Paul Ricoeur, “C’è sempre stato un problema ermeneutico nel cristianesimo”.
Stefano Didonè
direttore di Studia patavina