«Dio non è mai Dio senza l’uomo»: così si esprimeva Eberhard Jüngel, teologo luterano deceduto il 28 settembre scorso, per quarant’anni docente presso l’università di Tubinga in Germania. Si tratta di una delle frasi che esprimono il risultato della sua ricerca teologica, incentrata sull’interrogativo di come dire Dio in un modo adeguato alla rivelazione cristiana. Tale domanda era matura fin dagli anni giovanili, in un ambiente, la DDR, marcato da un forte ateismo: se è possibile vivere senza Dio, come parlarne in modo da parlare del Dio cristiano? A suo avviso, si tratta di presentare Dio non come necessario ma come un Dio interessante-di-per-sé, a motivo del suo non essere mai senza l’uomo. Questo legame tra Dio ed essere umano è maturato dallo sguardo alla sola croce di Gesù Cristo: «Dio rimane fedele a se stesso quando rimane fedele all’uomo che ha creato». Sulla croce, infatti, Dio si fa vicino all’uomo, pur nella distanza in cui questi si pone.
Il teologo di Tubinga, considerato quasi il “papa dei Luterani” per l’autorevolezza riconosciutagli, a motivo dell’approfondita e precisa conoscenza degli scritti di Lutero, si distingue anche per la rigorosità della sua riflessione, messa a servizio del compito di «pensare Dio come amore»: per pensare Dio e uomo e il loro legame va articolato il rapporto tra Dio che è amore e l’amore umano. Ne risulta che l’esperienza umana dell’amore non è cancellata dall’annuncio evangelico, ma esaltata come unica e irriducibile, pur distinta dall’amore divino: l’amore umano non è divino, ma fa appello all’amore di Dio, mistero del mondo, come sua garanzia.
A questo proposito, in un incontro personale avvenuto nella sua casa a Tubinga alcuni anni fa, il teologo di Dio mistero del mondo, la sua opera principale, mi rivolse una frase che ha guidato la mia ricerca successiva, in particolare sul rapporto tra amore e fede: «Non serve la fede per amare, ma chi crede ama necessariamente».
L’amore, infatti, non è appannaggio dei soli credenti, ma questi, proprio a motivo della fede, sono posti in quella che Jüngel definisce la «posizione antropologica fondamentale», ossia fuori di sé: il credente riconosce il proprio centro al di fuori di sé, in Dio che non è mai senza di lui e che lo spinge a uscire verso altri. Come l’innamorato, che è fuori di sé dalla gioia, dall’interesse per l’amata; come Gesù, che i suoi vanno a prendere perché, dicono, è fuori di sé: esattamente sbilanciato sul Padre, sugli uomini e sulle donne.
Si intuisce come non siano pochi gli stimoli per il pensiero credente oggi, per l’annuncio evangelico e per la presenza dei cristiani nel contesto contemporaneo, per cui vale la pena accostare nuovamente la riflessione di Jüngel, «uno dei più importanti e solidi teologi evangelici del nostro tempo» (Università di Tubinga).
Sono grato di aver potuto segnare la mia formazione teologica con l’approfondimento sistematico del pensiero e della vita di Jüngel e mi piace ricordarlo con queste sue parole che mi sono care e mi mantengono in ricerca: «nell’amore partecipiamo con Dio ad un unico e medesimo mistero: cosa vogliamo di più?».
Francesco Pesce
docente di Teologia pastorale
Istituto superiore di Scienze religiose “Giovanni Paolo I”
Belluno-Feltre, Treviso, Vittorio Veneto di Belluno, Treviso e Vittorio Veneto