Finito e infinito, algoritmo e respiro dell’universo

Un matematico, Paolo Zellini, e un esperto di cultura giapponese, Massimo Raveri, si sono confrontati sulla dinamica finito-infinito. Due interpretazioni diverse, ma non senza qualche parallelo, dell’ordine del mondo.

I greci pensavano l’infinito come divenire, come qualcosa di imperfetto: l’infinito in potenza, il senza-limite (l’apeiron di Aristotele). La matematica, nel suo percorso storico, ha cercato di ribaltare questa prospettiva e, già con Leibniz, ha cominciato a parlare di infiniti, al plurale, scoprendo che ci sono tanti infiniti e che si possono ordinare gerarchicamente. La svolta è avvenuta con Georg Cantor, un matematico vissuto fra il 1845 e il 1918, e con la sua teoria dell’infinito come totalità attuale. «Cantor utilizzò il metodo diagonale per dimostrare che esistono nel continuo, geometrico o numerico, degli elementi che non si possono definire: il continuo non è numerabile» ha spiegato Paolo Zellini, docente di Analisi numerica all’Università Roma 2, intervenendo il 9 marzo 2017 a Padova al secondo appuntamento del percorso Ai confini dell’infinito promosso dalla Facoltà teologica del Triveneto e dal Dipartimento di Fisica e astronomia dell’Università di Padova. [Scarica le registrazioni delle relazioni.] [materiale della prima conferenza Spazio e tempo]
In questo viaggio nell’evoluzione delle teorie matematiche sul rapporto tra infinito e finito incontriamo David Hilbert, che nel saggio “Sull’infinito”, datato 1925, affermò che in nessuna parte della realtà noi troviamo l’infinito, ma l’analisi matematica è una “sinfonia dell’infinito”. L’infinito è un’illusione, ma non la dobbiamo perdere; ciò che occorre fare, secondo Hilbert, è ricondurre i metodi deduttivi che fanno uso dei concetti di infinito a dei procedimenti che facciano uso solo del finito, cioè all’aritmetica – ha spiegato Zellini: «Questi procedimenti finiti, che preludono al digitale, devono essere approssimati da metodi aritmetici e questo ridurre la matematica a procedimenti finiti ci porta agli algoritmi, con cui riusciamo a definire, approssimandoli, gli elementi infiniti».

Alla traduzione della realtà, che concretamente possiamo misurare, in una visione matematica, è stata accostata una lettura di carattere religioso-spirituale del rapporto finito-infinito nella tradizione orientale, e in particolare nel buddismo mahayana, proposta da Massimo Raveri docente di Religioni e filosofie dell’Asia orientale all’Università di Venezia.
Il pensiero orientale è sempre stato fedele ad alcuni postulati. Innanzitutto materia ed energia sono fusi, sono la stessa cosa (corpo-mente, body-mind), e l’universo è un unico mondo tridimensionale, composto dalle forme, dalla dimensione totalmente spirituale e dalla verità assoluta. Inoltre, essere e divenire coincidono: l’essere è per definizione divenire e Yin e Yang (simboleggiati nel Tao) sono le due modalità dell’essere. «Gli opposti sono uno funzionale all’altro in un processo dinamico che è il respiro dell’universo – spiega Raveri – L’universo è un respiro illimitato, finito e infinito, che non ha avuto inizio e non avrà fine, e non ha un fine; è materia-coscienza che deve divenire, è il continuo ricrearsi delle forme».
L’assoluto «è ineffabile, sa la sofferenza dell’universo non illuminato e guida attraverso i linguaggi (umano, matematico…) che sono relativi ma ci portano vicino, per approssimazione, fino a fare il salto qualitativo intuitivo nell’infinito, che è il vuoto, la realtà ultima. Solo nella finitudine c’è l’infinito». L’universo in cui siamo è creazione della nostra mente e i maestri buddisti mahayani guidano gli allievi a scendere dentro se stessi attraverso diversi stadi di coscienza fino a capire che le forme sono illusorie, create dalla mente, e poi che anche la mente è creata dalla mente e infine a sperimentare in sé il vuoto». Ma poi tocca risalire e come si fa a vivere nelle forme sapendo che sono il vuoto? «Attraverso i paradossi si può vivere la realtà come unione di due opposti, fino alla resa al vuoto, fino all’accettazione della vita come paradosso. Il paradosso sperimenta il vuoto, l’infinito. Il paradosso – conclude Raveri – va vissuto, non risolto».

Paola Zampieri

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