La chiamata a una responsabilità etica globale

La pandemia ha messo in luce un doppio volto della vulnerabilità, facendone emergere sia una dimensione generale, che tutti accomuna, sia una dimensione speciale, che è il frutto nefasto del neoliberismo e dell’ingiustizia. Di qui, l’urgenza che venga assunta una nuova responsabilità sociale fondata sulla solidarietà. La riflessione di Sabina Girotto, docente del corso "Bioetica e Covid-19" all'Issr "Giovanni Paolo I".

La crisi sanitaria globale in atto ha interpellato la vita dell’umanità sotto vari profili, provocando una riflessione in seno alla stessa bioetica rispetto ai suoi principi di riferimento.

Benché vi siano numerosi approcci, si deve riconoscere che il paradigma dominante sin dalle origini è stato il cosiddetto Georgetown Model, formulato da Tom Beauchamp e da James Childress. Secondo questa prospettiva, i quattro principi morali di autonomia, beneficenza, non maleficenza e giustizia permetterebbero di affrontare i problemi etici che nascono nella pratica clinica, soprattutto a seguito del progresso medico-scientifico. La bioetica “dominante”, pertanto, è una bioetica “principialista”.

La pandemia come problema di salute a un tempo “locale” e “globale”, ha mostrato tuttavia l’insufficienza di questo approccio, in particolare del principio di autonomia, e la necessità di ripensare il quadro normativo di riferimento. In realtà, la consapevolezza dei limiti della cosiddetta mainstream bioethics è risalente, poiché già nel 1970 il biochimico e cancerologo Van Rensselaer Potter aveva definito questa disciplina come una “scienza della sopravvivenza”, invocando la necessità di superare la dimensione puramente clinica.

Tuttavia, l’interesse per la pratica clinica e la considerazione della bioetica come nuova etica medica avevano avuto la prevalenza, marginalizzando la visione di Potter che apriva lo sguardo all’intero ecosistema e dunque alla questione della sopravvivenza tanto del pianeta quanto dell’umanità. Non a caso, la sua opera fondamentale porta il titolo: “Bioetica. Ponte verso il futuro”.

Nonostante l’insuccesso iniziale, quest’ultima prospettiva si è rivelata profetica, tanto da essere oggi al centro di un grande interesse. In particolare, il medico olandese Henk Ten Have, dal 2010 al 2019 direttore del Center for Healthcare Ethics a Pittsburgh, è stato ed è uno dei protagonisti del “rilancio” della global bioethics, nella convinzione che sia necessario sistematizzare un nuovo quadro etico-normativo, capace di andare oltre le interazioni tra gli individui, oltre il contesto dei paesi ad alto reddito e oltre il campo della medicina stessa. Nel testo “Bioetica globale. Un’introduzione”, Ten Have contesta la centralità del principio di autonomia, a sua volta promosso dal modello economico neoliberale, per sottolineare l’idea di una cittadinanza universale fondata sul principio di solidarietà.

I problemi odierni che attengono alla sfera della salute sono infatti in gran parte problemi globali, caratterizzati cioè dalla diffusione su larga scala, dall’interconnessione, dalla persistenza, dallo scopo generale, e dalla conseguente necessità di cooperazione. Inoltre, essi dipendono soprattutto dal processo di globalizzazione, in particolare economica, che ha aumentato le frange di vulnerabilità esistenti, creando condizioni inique di vita per la maggior parte della popolazione del pianeta, e alterando i delicati equilibri ambientali, con conseguenze nefaste sul piano della salute e della sua tutela.

La bioetica è oggi dunque inevitabilmente globale, perché da una parte vede la sua agenda allargarsi a tematiche che superano l’ambito puramente clinico, legando la dimensione della salute all’ambiente e alla sfera socio-economica (perdita della biodiversità, biopirateria, cambiamento climatico, povertà, sfruttamento di popolazioni vulnerabili, ecc.); dall’altra, essa non può ignorare che molte questioni tradizionali assumono una nuova complessità (doppio standard nella ricerca scientifica, traffico d’organi, maternità surrogata in paesi a basso reddito, ecc.).

Grazie all’impulso del cosmopolitismo in campo filosofico e politico, con l’enfasi sull’appartenenza a una comunità umana universale, e dei diritti umani in campo giuridico, la prospettiva della bioetica globale ha trovato nel tempo un terreno di ancoraggio e sviluppo che ha portato alla redazione della Universal Declaration on Bioethics and Human Rights (Unesco, 2005), una sorta di magna carta della Bioetica Globale. Approvata dai rappresentanti di 191 stati, essa racchiude un set di 15 principi che costituiscono il fondamento della chiamata a una nuova responsabilità etica.

In particolare, vengono sanciti il rispetto per la vulnerabilità, la solidarietà, la cooperazione, la giustizia, la responsabilità sociale, la condivisione dei benefici, la protezione delle future generazioni, la protezione dell’ambiente, della biosfera e della biodiversità.

Tale approccio chiama in causa anche il sistema di global governance, poiché per essere applicato ha bisogno del sostegno di organismi e istituzioni internazionali.

Il quadro qui sinteticamente delineato offre dei criteri in ordine a una “rilettura bioetica” della pandemia. La lezione principale che possiamo ricavare è l’insufficienza della mainstream bioethics e la necessità di riformulare il quadro di principi di riferimento in direzione globale. Infatti, la pandemia ha anzitutto accentuato la consapevolezza che siamo cittadini di un unico mondo, chiamati a riconoscere da una parte l’esistenza di beni destinati a tutta la comunità umana (dal bene più generale “salute” a beni più specifici, come i vaccini); dall’altra, la necessità di custodire il pianeta per le presenti e le future generazioni, superando logiche economiche come quella neoliberale che depauperano intere popolazioni nonché lo stesso ecosistema. In particolare, la pandemia ha messo in luce un doppio volto della vulnerabilità, facendone emergere sia una dimensione generale, che tutti accomuna, sia una dimensione speciale, che è il frutto nefasto del neoliberismo e dell’ingiustizia. Di qui, l’urgenza che venga assunta una nuova responsabilità sociale fondata sulla solidarietà. Nello stesso tempo, si sono manifestati i limiti della global governance, con il bisogno di rafforzare le istituzioni poste a tutela della salute globale come l’Oms.

Sebbene il paradigma della global bioethics, proprio a causa della sua universalità, possa mostrare alcuni punti di debolezza o apparire di difficile realizzazione, alla prova dei fatti si rivela come un modello che non può più essere tralasciato all’interno della riflessione bioetica, e che chiede di essere implementato anche negli ambiti più tradizionali di questa disciplina.

 

Sabina Girotto
docente del corso “Bioetica e Covid-19” 
Istituto superiore di Scienze religiose “Giovanni Paolo I”
Belluno-Feltre, Treviso e Vittorio Veneto

 

foto da Pixabay.com

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