Padova, 18 marzo 2019. Rappresentanza, partecipazione, democrazia, corresponsabilità: sono categorie fondamentali nella vita della chiesa, ma anche in quella della società civile e nelle relazioni politiche. Gli ambiti sono differenti ma forse non del tutto separati.
In vista del convegno nazionale inter-facoltà Sinodalità: una chiesa di fratelli e sorelle che camminano e decidono insieme (Padova, 12 aprile 2019 – vai alla notizia), affrontiamo l’argomento con Marco Vergottini, già docente di Storia della teologia contemporanea alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, attualmente incaricato di Teologia pastorale alla Facoltà teologica del Triveneto e autore del volume Il cristiano testimone. Congedo dalla teologia del laicato (EDB, Bologna 2017).
Professor Vergottini, che cosa accomuna e che cosa distingue questi concetti nei due diversi contesti?
«In questa fase storica delle democrazie occidentali, contrassegnata da una marcata crisi di identità degli ideali e delle istanze di partecipazione, non ritengo che ci si possa fruttuosamente cimentare de iure e de facto nell’esercizio di un puntuale raffronto tra similitudini e dissonanze fra le forme della vita civile e quelle della vita ecclesiale».
Quindi, a suo giudizio, non sarebbe lecito sostenere che la chiesa sia una “democrazia” nel senso strettamente politico del termine?
«Credo proprio che il problema non possa essere posto in questi termini. Rigorosamente parlando, la chiesa cattolica non è una “democrazia”, come parimenti non ha senso parlare nel suo caso di una “monarchia”. Per non cadere in equivoci si può sostenere ‒ con il teologo spagnolo A. Torres Queiruga ‒ che è corretto affermare che la chiesa non è una democrazia soltanto a condizione di voler sostenere che essa è molto più di una democrazia. In altre parole, il vissuto ecclesiale dovrà contraddistinguersi per forme concrete di realizzazione che lascino trasparire uno stile ancora “più democratico”, cioè più libero, egualitario, partecipativo e antiautoritario. La chiesa ha dal suo Signore lo stretto mandato di procedere sempre su questa strada, lasciandosi giudicare da questa norma suprema».
Eppure ci sono istituzioni di recente costituzione – basti pensare agli organismi di partecipazioni quali i consigli pastorali ‒ che in parte richiamano a forme mutuate dalla società civile.
«Proprio nel caso dei consigli pastorali diocesani o parrocchiali si registra un rischio di una confusione di piani e di obiettivi sul piano linguistico. Frequentemente si ripete che tali organismi, non potendo rivendicare un potere deliberativo, si devono accontentare di esprimere un parere solo consultivo. Ciò costituisce un palese equivoco. A proposito del “consigliare” nella chiesa, bisogna finalmente mettere fine a un falso dualismo espresso dalla coppia consultivo/deliberativo. Se la partecipazione dei fedeli assume un profilo “solo consultivo”, si potrebbe ritenere che tale contributo mantenga ultimamente un valore solo facoltativo, finanche quasi decorativo. In realtà, poiché il consiglio è un dono dello Spirito, e non già una prestazione del singolo, il pastore non può che sentirsi obbligato in presenza di consigli saggi, ben ponderati, spirituali che promuovono il bene della comunità».
Una tale prospettiva beneficia della rinnovata consapevolezza inaugurata dal concilio Vaticano II.
«Precisamente. La chiesa, in quanto comunità, tutela i diritti di tutti i suoi membri nel loro modo di esprimerle i propri desideri e bisogni spirituali. Il concilio Vaticano II sottolinea che i fedeli laici hanno il diritto, proprio in quanto battezzati, di ricevere in abbondanza dai loro pastori i beni spirituali della chiesa, in particolare l’assistenza della Parola di Dio e dei sacramenti. Inoltre, tutti i battezzati dovrebbero apertamente poter rivelare loro i propri desideri e bisogni con quella libertà e quella fiducia proprie dei figli di Dio e dei fratelli in Cristo (LG 37)».
Paola Zampieri