Padova, 25 marzo 2019. Il tema della sinodalità è ritenuto uno snodo fondamentale per la recezione e l’attuazione del concilio Vaticano II, anche se «il termine “sinodalità” non compare di per sé nei testi conciliari ma è piuttosto frutto dell’approfondimento post-conciliare dell’idea di chiesa come popolo di Dio dove tutti hanno la stessa dignità, data dal battesimo e dal fatto di essere figli nel Figlio, assieme a una differenziata corresponsabilità nella vita e nell’azione missionaria della chiesa».
Così Roberto Repole, presidente Ati, direttore della Sezione di Torino della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e docente di teologia sistematica, introduce il terzo approfondimento in vista del convegno nazionale Sinodalità: una chiesa di fratelli e sorelle che camminano e decidono insieme (Padova, 12 aprile 2019 – vai alla notizia), preparato da un gruppo di lavoro inter-facoltà, di cui Repole è membro.
Professor Repole, in questi ultimi anni il tema della sinodalità ha acquisito una certa urgenza e maggiori sollecitazioni grazie anche al magistero e allo stile pastorale di papa Francesco, con il suo appello alla riforma della chiesa. È possibile e quale spazio vede per una riforma “sinodale” della chiesa?
«L’attuale pontefice certamente ha dato un forte impulso alla chiesa perché riprenda confidenza con la dimensione fondamentale della sinodalità. Lo ha fatto con il suo stile ma anche con alcuni discorsi, come quello tenuto in occasione del 50° anniversario del sinodo dei vescovi, e con Evangelii gaudium, testo programmatico del pontificato. Ovviamente ciò richiede anche la riforma di alcune strutture ecclesiali, nella quale papa Francesco si è impegnato personalmente con la creazione del Consiglio dei cardinali (il cosiddetto C9) per trasformare la curia nell’espressione di un papato aperto alle esigenze di tutta la chiesa. I processi di riforma però non sono semplici né immediati».
Quali sono gli snodi fondamentali in questo processo di riforma?
«Innanzitutto il coinvolgimento del popolo di Dio richiede un impegno e una collaborazione da parte di tutti. Ci sono poi alcuni aspetti, anche strutturali, che necessiterebbero di essere toccati. Ad esempio, sarebbe auspicabile la creazione di nuovi patriarcati, che permettano alle chiese continentali di prendere maggiormente in mano il proprio destino con processi più sinodali. Inoltre, a 50 anni dal Concilio, anche la ministerialità all’interno della chiesa locale dovrebbe essere ripensata in forma più sinodale, facendo tesoro delle possibilità dischiuse e propiziate dall’ultimo Concilio».
Con una maggiore apertura alla dimensione collegiale da parte dei presbiteri?
«Nel Vaticano II ci sono state delle aperture alla realtà del presbiterio – presieduto dal vescovo, coadiuvato dai diaconi (che sono sorti dopo il Concilio) – che oggi andrebbe potenziato, ripensato e attualizzato. Spesso i preti svolgono ancora il ministero come l’hanno ereditato dal passato con il rischio, quanto meno, di percepirsi come soggetti a sé stanti, di cadere nell’individualismo. Un’apertura maggiore alla dimensione collettiva appare ormai necessaria».
Gli organismi di partecipazione nella vita della chiesa hanno perso significatività in questi cinquant’anni dal Concilio?
«Direi di sì, e anch’essi dovrebbero essere toccati da processi di riforma; una riforma che renda più evidente come chi partecipa a questi organismi porti un carisma particolare in merito alle cose su cui di volta in volta si riflette e abbia anche un’autorità, una responsabilità effettiva. Ciò chiede una riforma sia sul piano del codice della chiesa universale sia sul piano del diritto delle chiese particolari».
Un punto d’arrivo nella riflessione sulla sinodalità è il documento della Commissione teologica internazionale La sinodalità nella vita e nella missione della chiesa (2 marzo 2018), che è il primo testo ufficiale della chiesa cattolica che organicamente e programmaticamente tratta della sinodalità.
«Si tratta di un contributo prezioso, perché fa il punto sulla situazione in maniera ufficiale e lo fa a un livello alto, chiamando in causa anche l’aspetto teologico della sinodalità. Spesso infatti la sinodalità appare semplicemente come una questione pratica o di riforma concreta di strutture. Ma dobbiamo ricordare che in questo modo d’essere e in questa espressione della vita ecclesiale – come evidenzia il documento della Cti – è in gioco veramente il modo di rapportarsi di Cristo vivo nello spirito con la chiesa e dunque anche il volto trinitario di Dio».
Quali sono le implicazioni più impegnative nel compito di vivere la chiesa all’altezza di questo compito?
«Una delle implicazioni su cui il documento della Cti ci invita a riflettere è questa: i possibili processi di riforma saranno veri e reali ed effettivi nella misura in cui corrispondono anche a processi di conversione spirituale da parte di tutti i soggetti ecclesiali. E ciò non è scontato né è pensabile come una cosa fatta una volta per sempre».
Il diritto canonico quindi non è la bacchetta magica…
«Da una parte è necessario mettere mano ad alcuni processi di riforma anche sul piano del diritto canonico, che è un punto di riferimento. Ci viene chiesto però di camminare sulla linea della sinodalità e per questo è necessaria una conversione costante, perenne, di tutti i soggetti ecclesiali, non solo di chi svolge il ministero nella chiesa. Il pericolo del clericalismo c’è nei preti ma qualche volta anche nei laici quando non si assumono le loro responsabilità o non vivono la loro vocazione e il loro impegno fino in fondo».
Papa Francesco ha affermato che la sinodalità è il cammino richiesto alla chiesa per il terzo millennio. C’è un tratto di strada comune che si può fare con la società civile?
«Vedendo la situazione sociale e politica del nostro tempo penso che se la chiesa riuscisse veramente a riformarsi su un livello più sinodale, con ciò che la sinodalità realmente significa per la vita ecclesiale, questo potrebbe essere anche un grande contributo che viene dato pure alle società e alle democrazie contemporanee, che stanno vivendo dei forti momenti di crisi e anche di pericolo. La sinodalità potrebbe essere un modo per annunciare il vangelo non soltanto in termini “personali”, ma anche come chiesa che sta dentro una società e che lo annuncia anche ai processi “sociali”».
Paola Zampieri