«Vi guiderà a tutta la verità» (Gv 16,13). Lo Spirito è maestro del cambiamento, del rinnovamento e quindi anche di una sana instabilità. In questo movimento continuo, si inserisce anche il recente motu proprio di papa Francesco, Antiquum ministerium, che istituisce il “ministero laicale di catechista”.
Le fonti
Il titolo ci porta alle radici: antico non è sinonimo di superato, ma di originario. La vita delle prime comunità cristiane, testimoniata negli scritti del Nuovo Testamento, ci rivela gli elementi strutturali di ogni proposta ecclesiale. Non si tratta di un modello da ricopiare, ma di un’esperienza fondativa della Chiesa, riferimento a cui tornare continuamente per riconoscere l’opera dello Spirito anche oggi. Papa Francesco non la rilegge solamente come buona esortazione, ma va al concreto: le prime comunità cristiane avevano una “diffusa forma di ministerialità” che può orientare anche oggi il nostro modo di vivere i ministeri. Le numerose citazioni, in un documento così breve, di testi del Concilio Vaticano II e del magistero pontificio approfondiscono questa fonte iniziale, in un importante passo avanti nell’attuazione dell’ultima assemblea conciliare.
I termini
Il documento ruota attorno a due fuochi: laico e missione. Il primo, inserito nel nome stesso dell’istituzione, dichiara fin da subito che il fondamento teologico è nel battesimo: in forza del dono battesimale, tutti i credenti sono resi corresponsabili nell’annuncio del vangelo. Non mancano i documenti e le omelie che lo ricordano: ora si passa dal tono esortativo a quello istituzionale, cioè strutturalmente e pubblicamente riconosciuto. Il secondo fuoco, missione, definisce il metodo e gli ambiti di un tale ministero. Si rincorrono le espressioni con le quali viene ripresentato sempre in forma nuova lo stretto rapporto di reciprocità tra proposta della fede e cultura contemporanea. Una per tutte: «fedeltà al passato e responsabilità per il presente sono le condizioni indispensabili perché la chiesa possa svolgere la sua missione nel mondo» (n. 5).
Le sfide
Sanamente provocata, ogni chiesa locale è chiamata a fare proprio il documento: inevitabilmente emergeranno alcuni nodi irrisolti di un certo sistema pastorale, forse troppo a lungo trascurati, ma allo stesso tempo si pongono le basi per un loro superamento.
Laici e chierici
La sottolineatura di “laicale” nel nome del nuovo ministero, ne denota la forza e la debolezza. Come già detto, riconosce il valore del battesimo, ma allo stesso tempo presta il fianco a una distinzione dentro il popolo di Dio che risente ancora di una lettura clericale. La chiamata all’evangelizzazione e al suo esercizio concreto non è né laicale né clericale, ma semplicemente cristiana. Il documento pone gli antidoti contro un’interpretazione poco corretta: da una parte riconosce la «fattiva presenza di battezzati» (n. 2); dall’altra ricorda che i pastori non sono chiamati ad «assumersi da soli tutto il peso della missione». Serve un pensiero all’altezza della questione: la teologia del battesimo è chiamata ad approfondire sia la riabilitazione del sacramento sia la sua ricezione. Ne può guadagnare anche il ministero dei preti, in crisi di significanza sociale ed ecclesiale.
Formazione e discernimento
Il documento è preciso: parla di «forte valenza vocazionale». Ci troviamo su un piano ben diverso dalla tipica ricerca che si ripete ogni autunno nelle nostre parrocchie. E allo stesso tempo, non è sufficiente il titolo concesso da un istituto teologico, per quanto qualificato. Si può verificare infatti, per dirla con una battuta, che una formazione sul Concilio Vaticano II generi studenti del Concilio di Trento! Chi ha frequentato i vari corsi “per laici” negli istituti diocesani, spesso lamenta di non essere riconosciuto e valorizzato nella propria parrocchia. È un dato di fatto, gli attori coinvolti sono il parroco e i suoi collaboratori; non si può però trascurare anche lo sguardo sul tipo di formazione ricevuta, che rischia di far precedere una serie di conoscenze al cuore della fede, l’incontro vivo con Cristo nella comunità cristiana. Per questo il criterio del discernimento è già nelle prime parole: «la comunione di vita come caratteristica della fecondità della vera catechesi ricevuta» (n. 1). Ogni formazione è a servizio di questa comunione, e in vista di questa capacità relazionale si attua il discernimento. È questo il modo concreto per superare il pericolo più grande che lo stesso documento ravvisa: «senza cadere in alcuna espressione di clericalizzazione» (n. 7).
La strada è aperta: se l’orizzonte è quello di una forma ecclesiale più missionaria, anche i piedi troveranno la forza per camminare uniti verso questa direzione.
don Rolando Covi
docente di Teologia pastorale
Facoltà teologica del Triveneto, Padova
e Istituto teologico affiliato di Trento