Sulla coscienza

La coscienza nel suo rapporto con l’umanità è un fenomeno complesso che tante discussioni ha suscitato e continua suscitare in un tempo di pluralismo e di secolarismo come quello in cui viviamo. In vista della giornata di studio “Coscienza e umanità” (21-22 ottobre), il teologo Giuseppe Trentin propone alcune chiarificazioni linguistico-concettuali nell’uso del termine coscienza.

La coscienza nel suo rapporto con l’umanità è un fenomeno complesso che tante discussioni ha suscitato e continua suscitare in un tempo di pluralismo e di secolarismo come quello in cui viviamo. In vista della giornata di studio “Coscienza e umanità” (Padova e online, 21-22 ottobre 2022 clicca qui), il teologo Giuseppe Trentin propone alcune chiarificazioni linguistico-concettuali nell’uso del termine coscienza.

 

Il termine coscienza può avere molteplici significati. Ne elenchiamo quattro.

1) “Coscienza” può volere dire caso o problema “morale”: nella casistica tradizionale cattolica si parlava in questo senso di “casi di coscienza”.

2) “Coscienza” può significare anche facoltà di “conoscenza morale”: in tale senso si dice spesso che l’uomo a differenza degli animali ha una coscienza.
Tale facoltà o capacità di conoscenza morale si riconosce soprattutto a partire dai giudizi pratici. Questa, almeno, è la concezione di coscienza che hanno i filosofi inglesi del cosiddetto “senso morale” (moral sense), Hume, Hutcheson, Shaftesbury, ecc., i quali intravedono nei giudizi pratici un’analogia tra la facoltà della conoscenza sensibile e la facoltà della conoscenza morale. Più che come voce della ragione questi filosofi concepiscono la coscienza in analogia con il senso estetico: come in campo estetico l’uomo percepisce armonia e disarmonia, ad esempio nella musica, oppure proporzione e sproporzione, ad esempio nella pittura, nella scultura, nell’architettura (Shaftesbury), così in campo morale l’uomo percepisce armonia e disarmonia, proporzione e sproporzione, tra diversi bisogni dell’uomo o della società. L’altruismo, sotto questo profilo, sarebbe armonia, proporzione, con i bisogni e le richieste della società (si pensi al riguardo alla “politeia” greca). L’egoismo al contrario sarebbe disarmonia, sproporzione, con i bisogni e le richieste della società. All’origine di tale percezione vi sarebbe non un ragionamento, ma un affetto, un’emozione, un sentimento, da cui deriverebbe un affetto, un’emozione o un sentimento secondario che a sua volta influisce sull’affetto, l’emozione, il sentimento primario e diventa motivo di azione (in Kant è tutto diverso: per lui vale la ragione pura, che è anche ragione pratica).
Il problema che si pone a partire da tale concezione della coscienza è se attraverso il senso morale l’uomo sia in grado di percepire non solo gli affetti, le emozioni, i sentimenti, ma anche le qualità morali, etiche, degli uomini e delle loro azioni. Il che è francamente difficile da sostenere se si parte da ciò che dice, ad esempio, Hutcheson, e cioè «that that action is best which procures the greatest happiness for the greatest numbers», «che la migliore azione è quella che produce la maggiore felicità per il maggior numero possibile di uomini». Una simile concezione sarebbe più facilmente concepibile nell’ambito di una teoria deontologica, nella quale il dovere della coscienza viene interpretato più che altro come dovere di evitare quelle azioni la cui falsità morale è quanto meno intuibile. Contro questa specie di teoria del senso morale è da tenere fermo il carattere cognitivo, non solo emotivo, estetico, dei giudizi morali (e quindi della coscienza).
Anche J.H. Newman parla di senso morale, ma lo interpreta in modo molto diverso, come conoscenza immediata in senso psicologico, non logico, frutto o risultato di un ragionamento implicito.

3) “Coscienza” può voler dire ancora “legislatore e giudice interiore”: si pensi a frasi come “la mia coscienza mi ordina, mi proibisce” di fare questo e questo; oppure ad espressioni del tipo “ho la coscienza tranquilla”, “provo rimorso”, ecc. È chiaro che in frasi o espressioni del genere si fa riferimento a una coscienza addetta, per così dire, ai giudizi che mi riguardano.
Si tratta quindi di una coscienza che mi comanda (coscienza antecedente), mi giudica (coscienza concomitante), a volte mi rimorde, altre volte mi consola (coscienza conseguente). In riferimento a questo significato si pone il problema di come un uomo possa comandare, giudicare, rimproverare o anche consolare se stesso. Come sia da concepire, in altri termini, l’“autonomia” dell’uomo, perché se non si vuole ridurre, come fanno i decisionisti, l’obbligazione morale alla decisione sovrana della volontà, l’“io devo” all’“io voglio”, è giocoforza supporre, come fa anche Kant, che esistono due “io” nell’uomo: uno che obbliga e l’altro che viene obbligato (cf. Kant MST, § 1).
Contro questa spiegazione si può sollevare un’obiezione: l’io che viene obbligato non si può, né si deve, identificare con l’uomo in quanto essere sensibile: in altre parole l’“io” spontaneo, l’“io sento”, non può, né deve, essere destinatario di un’istanza morale e quindi non può obbedire in senso propriamente etico. La sfera dei nostri impulsi, dei nostri affetti, quella che Freud designa come “Es”, è un ambito che viene controllato, dominato, dall’uomo in quanto soggetto morale. È quindi da distinguere molto chiaramente il fenomeno dell’autocontrollo, del dominio dell’io, come soggetto libero, sull’“es”, l’io spontaneo, dal fenomeno dell’obbedienza, dell’autonomia come auto-legislazione, auto-giudizio, che ha come destinatario l’io libero. Solo questo io può essere destinatario dell’appello della coscienza, non l’io spontaneo.
L’io spontaneo e l’io libero hanno in comune solo il fatto che reagiscono spontaneamente, costituiscono una specie di presupposto dell’istanza morale. Destinatario dell’istanza morale non è però un “io presupposto”, bensì un “io presente”, coinvolto, un io come soggetto libero. Rahner distingue in questo senso l’uomo come “natura” dall’uomo come “persona”.
Come si può intuire, il significato di coscienza come legislatore e giudice presuppone come teoria metaetica il cognitivismo. In effetti per i non-cognitivisti, in particolare per i decisionisti, non esiste alcuna istanza categorica oltre l’auto-determinazione dell’uomo e pertanto nessuna coscienza come legislatore interiore che emerga e operi spontaneamente. Il decisionista non si sente vincolato dall’obbligazione del bene. Decide lui con decisione sovrana il senso della vita, cosa è bene e cosa è male (“sic volo, sic iubeo”, si potrebbe dire: “così voglio, così comando”). Una concezione che ovviamente non permette di spiegare la struttura forense della coscienza come io libero di fronte alla legge e al giudice che lo giudica in base alla legge. Può solo concepire la coscienza come una specie di “super-io” in senso freudiano.
[Cf. in proposito B. Schüller, Dezisionismus, Moralität, Glaube an Gott, in Id., Der menschliche Mensch, Düsseldorf 1982, 54-88].

4) “Coscienza” infine può volere dire “cuore” in senso biblico, e cioè come soggetto morale: si pensi a come la Bibbia ne parla quando ad esempio afferma che lo «Spirito purificherà la coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente» (Ebr 9, 14) o quando afferma che «la carità sgorga da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera» (1Tm 1,5). Non avrebbe senso, a partire da simili espressioni, parlare di coscienza come “comando” o “giudizio”.

5. Sotto questo profilo “Sitz im Leben” della coscienza come legislatore e giudice è il contesto nel quale viviamo e operiamo: a volte in modo conforme alla legge, altre volte in modo difforme. Di qui il fenomeno della coscienza erronea e il problema della formazione della coscienza.

6. Il fenomeno della “coscienza erronea” è un fenomeno complesso sul quale vale la pena soffermarsi e fare qualche considerazione.

a) Un eventuale errore della coscienza ha infatti luogo sempre in riferimento a questioni riguardanti il moralmente giusto, non il moralmente buono (cf. in proposito l’affermazione di Kant «una coscienza erronea è una contraddizione in sé»: Kant, evidentemente, intende la coscienza solo in riferimento al moralmente buono). Più in particolare, quando si parla di errori della coscienza, è sempre bene tener presente che vi possono essere sia “errori di diritto” che “errori di fatto”. Molti errori di diritto, poi, sono spesso riconducibili a errori di fatto. È importante sottolinearlo, soprattutto a fronte di un relativismo etico che riconduce tutto alla coscienza, come se si trattasse di un’istanza infallibile. Purtroppo non è così.

b) Non è questo però il problema principale. Le difficoltà maggiori riguardano l’obbligatorietà della coscienza erronea: tesi che per altro la tradizione cattolica ha sempre difeso nonostante confusioni e fraintendimenti vari. Un primo fraintendimento risale ad Agostino, il quale obietta che il comando di un’autorità inferiore (la coscienza) non obbliga se non corrisponde al comando di un’autorità superiore (la legge di Dio). A questa difficoltà si può rispondere che la coscienza non va concepita come un’“autorità inferiore”, bensì come istanza attraverso la quale si accerta la validità della legge, del comando dell’autorità superiore, e cioè di Dio (cf. in proposito san Tommaso, De veritate, q. XVII a. 3: «nullus ligatur per praeceptum aliquod nisi mediante scientia illius pracepti»: «nessuno si deve ritenere legato a un qualche comando se non mediante la scienza di quel comando»). Un secondo fraintendimento riguarda la dottrina tradizionale cattolica in base alla quale siamo obbligati a seguire la coscienza solo se è incolpevolmente erronea. Seguire infatti una coscienza colpevolmente erronea è peccato. A questa difficoltà si può rispondere chiarendo e precisando che cosa significa “colpevolmente erronea”. La colpa non riguarda il comportamento, bensì l’atteggiamento: se una persona è consapevole dell’errore e non fa nulla per superarlo, non è più in buona fede e la coscienza non obbliga. O meglio, obbliga, ma obbliga di evitare, per quanto è possibile, l’errore. Ciò che importa quindi, nel quadro di una teoria normativa teleologica, è verificare se l’errore della coscienza causi più male del necessario. A volte la scelta non è tra due beni, bensì tra due mali: nel qual caso si deve scegliere il male minore. Sotto questo profilo la formazione della coscienza è importante ed è da prendere molto sul serio. (Le cose stanno diversamente nel quadro di una teoria deontologica: cf. in proposito le considerazioni di B. Schüller, Begründung, cit., 198ss, e le prese di posizioni di Lemkuhl, Noldin, Prümmer e altri teologi moralisti, sulla cosiddetta indicazione medica circa l’interruzione della gravidanza assolutamente proibita indipendentemente dalle conseguenze che ne derivano: sia la morte della madre che del figlio). Le situazioni nelle quali è possibile che si verifichi più frequentemente un errore della coscienza sono sostanzialmente due: quando un’azione è difficilmente riconducibile all’ambito di un giudizio preferenziale univoco; nel caso in cui per attenuare le conseguenze di una norma deontologica si prevedono delle eccezioni da inserire nella norma stessa (ad esempio quando si parla di uccisione diretta o indiretta).

c) Un’ultima precisazione, circa la obbligatorietà della coscienza erronea, riguarda il dovere del risarcimento. Quando per errore si compie un danno vi è sempre il problema del risarcimento del danno causato, per quanto involontariamente. Un dovere da osservare anche se non vi è stata colpa. L’obbligatorietà della coscienza erronea, il fatto che non si debbano imputare le conseguenze di un’azione compiuta in buona fede, non deve infatti indurre a pensare che l’ambito della legalità non abbia rilevanza nell’ambito della moralità.

7. Per quanto riguarda il problema della formazione della coscienza si tenga conto che in tanto questo problema si pone in quanto si ammette il fenomeno della coscienza erronea.
Normalmente tale fenomeno emerge laddove, in questioni etiche, ci si appella al pluralismo, al diritto di ciascuno di seguire la propria coscienza. Questo, però, che significa? Che la coscienza non può mai sbagliare? Se viceversa, come è facilmente intuibile, la coscienza può sbagliare, come evitare o eventualmente individuare l’errore? Per rispondere a queste domande la prima cosa da fare è ripensare la contrapposizione schematica tra coscienza e legge che si intravede, a volte, nei titoli di molte opere teologico-morali, anche recenti, che invitano a passare “dalla legge alla coscienza”, o a riflettere su “la coscienza e l’ordine morale oggettivo”.
La chiara suddivisione tra coscienza come organo di conoscenza che vale per tutti e coscienza come legislatore e giudice che vale per me non viene sempre adeguatamente rispecchiata in tali opere, o quanto meno in titoli nei quali il termine “coscienza” assume il significato più ristretto di “giudizio” della coscienza, dimenticando un significato più ampio che rimanda ad altri livelli di coscienza e viene solitamente espresso ricorrendo ad altre parole come “prudenza” o “sinderesi”.
Si può chiarire questo attraverso un sillogismo:
a) si deve fare il bene ed evitare il male (sinderesi: coscienza originaria);
b) una determinata azione può fare bene o male (prudenza: coscienza come conoscenza);
c) si deve rispettivamente fare oppure evitare questa azione (coscienza come giudizio).
Su questo sfondo il rimprovero di Scheler, in base al quale la coscienza altro non sarebbe che un arnese logico, una specie di sillogismo pratico, va interpretato bene: può non essere del tutto giustificato, se si tiene presente la polivalenza semantica del termine “coscienza”. In effetti quando i teologi cattolici parlano della coscienza come “centro della persona” danno al termine “coscienza” un significato più ampio di quando, ad esempio, ne parlano come “giudizio” pratico. Vi è sempre il rischio di non distinguere parole e cose, o comunque di fissare nel linguaggio corrente determinati concetti a determinate parole (coscienza = giudizio), per cui diventa poi difficile separarli.
Sarebbe invece opportuno tener presente che quando si parla di coscienza si può fare riferimento sia al “giudizio” che alla cosiddetta “sinderesi”, che indica per così dire la “coscienza originaria”, il sapere sulla differenza tra bene e male, come anche alla “prudenza”, che insegna ad applicare i primi principi alle situazioni concrete della vita. Sarà quindi bene ricordare e illustrare, a questo punto, alcuni principi generali che possono illuminare ulteriormente lo “Sitz im Leben” di un termine, coscienza, che può rimandare a livelli diversi come sono appunto:
a) la norma fondamentale del bene morale (regola d’oro, comandamento dell’amore)
b) la riflessione e l’individuazione di norme morali particolari (il bene che è da fare)
c) una serie di affermazioni tautologiche di tipo esortativo (il furto è proibito)
d) una serie di doveri “prima facie”, sui quali operare il discernimento.
Si potrebbe in tal modo, con von Hildebrandt, parlare della coscienza “come facoltà di “sus-sunzione”, di integrazione della singola azione sotto una regola generale (Kant parlerebbe di “praktischer Urteilskraft”, forza pratica del giudizio).
[Sulla questione cf. H. Welzel, Vom irrigen Gewissen, J. Bluedorn (Hg.), Das Gewissen in der Diskussion, Darmastadt 1976, 384-408; B. Schüller, Die Begründung sittlicher Urteile, Düsseldorf 1987, 40-55; Id. Gewissen und Schuld, in J. Fuchs (Hg), Das Gewissen, Düsseldorf 1979; 34-55; H. Reiner, Gewissen, in HWP 574-592].

8. Competenza del magistero in questioni morali
L’autorità del magistero della chiesa nelle singole questioni di etica normativa va intesa come aiuto e criterio di verifica. Si tenga presente che in etica normativa le cosiddette norme miste contengono presupposti di valore, ma anche presupposti di carattere empirico, che in quanto tali non rientrano nella competenza propria del magistero della chiesa, la cui autorità in riferimento a tali presupposti va pertanto interpretata solo nel senso di una presunzione di verità (“praesumptio veritatis”). Per cui fare appello indiscriminatamente all’autorità e alla santità della chiesa in questioni di etica normativa è spesso fuori luogo. Compito primario e proprio della chiesa è guidare gli uomini verso il fine ultimo, la salvezza. Nell’esercizio di tale compito ovviamente si esclude ogni possibilità di errore. Ciò che invece non è possibile escludere è l’errore in riferimento a quei dati empirici che rientrano nella formulazione delle cosiddette norme miste.
[Cf. J. Schuster, Kirkliches Lehramt und Moral, in W. Ernst (Hg.), Grundlage und Probleme der heutigen Moraltheologie, Leipzig (Würzburg) 1989,173-191].

9. Libertà di coscienza, di fede e di religione
a) Anche qui è bene precisare alcuni concetti. Per “libertà di coscienza” intendiamo che nessuno deve essere costretto ad agire contro la propria coscienza. Per “libertà di fede” intendiamo che nessuno deve essere costretto ad accettare una convinzione religiosa. Sotto questo profilo la libertà di fede altro non è che un’applicazione del principio della libertà di coscienza all’ambito religioso. Sarebbe inoltre opportuno distinguere la “libertà di fede” dalla “libertà religiosa”, o di religione: infatti mentre la prima è sostanzialmente una libertà interiore che nessuno potrebbe, anche se lo volesse, violare o impedire, la seconda, la libertà religiosa, implica, oltre alla libertà interiore, anche una libertà esteriore, più precisamente la libertà di professare, sia privatamente che pubblicamente, la propria fede o convinzione religiosa. In riferimento a tale libertà vi potrebbero essere, e molto spesso vi sono, limitazioni moralmente giustificabili, se non addirittura doverose.
[Sulla questione cf. W. Wolbert, Religionsfreiheit nach dem Vatikanum II, in L. Hagemann/E.Pulsfort (hg.), „Ihr alle seid Brüder“. Festschrift für A. Th. Khoury zum 60 Geburtstag, Würzburg/Altenberge 1990, 348-364].

 

Giuseppe Trentin
docente emerito di Teologia morale
Facoltà teologica del Triveneto

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