Con la tecnologia attuale non facciamo più la fatica di spostare le lancette dell’orologio. Con Bangkok ci sono 5 ore di differenza.
Eppure l’arte del dialogo richiede una grande fatica fisica.
Mi sono sempre sentita cittadina del mondo pensando di conoscere la fatica del viaggio, ma questa avventura formativa in Estremo Oriente (la Summer School della Facoltà teologica del Triveneto in Thailandia, 10-24 luglio 2023) mi ha offerto una nuova consapevolezza.
Siamo cittadini del mondo non solo perché capaci di spostarci facilmente da un continente all’altro, di vivere e lavorare “nel mondo” adattandoci ai vari contesti culturali spesso simili a quelli da cui proveniamo e sapendo superare eventuali imprevisti. Essere cittadini globali è molto di più: è una missione e un carisma, da chiedere e da far maturare.
Riconoscersi come membri di una comunità globale, diventare consapevoli della nostra interdipendenza con gli altri popoli è una scelta e una responsabilità per affrontare le sfide dell’umanità.
Essere cittadini globali è essere “costruttori di pace” e, come ha detto uno dei monaci buddhisti che abbiamo incontrato, “ingegneri di pace” e, io aggiungo, “in formazione continua”.
La pace non si improvvisa e se l’empatia reciproca che nasce con un sorriso può essere un buon inizio, l’amicizia universale ha bisogno di fatica e impegno: la disponibilità a imparare la lingua, gli usi e le tradizioni; l’impegno a fermarsi per un periodo significativo della propria vita; la capacità di adattarsi al clima, alla cucina, alla cultura; la difficoltà di capirsi anche quando si parla in inglese o in italiano; il lavoro quotidiano fatto di studio e di approfondimento. Tutto questo richiede un’energia personale che non può essere delegata.
Per creare fondamenta stabili, mettere radici profonde, alzare le prospettive, ognuno deve sapersi trasformare da intermediario a mediatore, lasciandosi coinvolgere con le proprie abilità, talenti, conoscenze, idee, investendo la propria identità culturale, sociale e religiosa, costruendo relazioni personali.
Il dialogo è incontro. È un’arte, che richiede un lavoro continuo e serio di preparazione e di tessitura amorevole, delicata, attenta, dove gli occhi dell’uno sanno sostare negli occhi dell’altro.
Mi sembra che la chiesa thailandese abbia questi connotati: un giardino rigoglioso fatto di fiori e alberi da frutto che esprime una ricchezza umana e spirituale bella, profumata, giovane, piena di prospettive, in cui i volti sanno farsi incontro.
Ogni contesto visitato, ogni iniziativa toccata occupa uno spazio dignitoso e visibile, coinvolge persone di generazioni e di provenienze diverse, genera valore per la comunità circostante, indipendentemente dal credo religioso, comunica una presenza solida.
Ai volti dei cattolici thailandesi si mescolano i pochi volti dei nostri preti italiani, dei nostri connazionali consacrati, uomini e donne, capaci di convivere, loro minoranza nella minoranza, con sereno entusiasmo e spirito di servizio in questo contesto.
Si tratta di un contesto in cui si percepiscono forti disparità sociali, povertà e bisogno di formazione e di emancipazione, segni di fragilità politica; in cui relativismo e materialismo cominciano a interrogare anche la società thailandese e tutti i gruppi religiosi presenti, buddhisti compresi.
Mi pare che il solo fatto di esserci interessati a conoscere, abbia alimentato in coloro che abbiamo incontrato la gioia di condividere con noi la propria storia e i propri valori.
Piccoli e semplici gesti, come le numerose foto di gruppo, sono il segno tangibile che il dialogo è possibile e, poiché il dialogo ha sempre contribuito a preparare il terreno per i grandi cambiamenti epocali, anche doveroso.
La prima cosa che abbiamo fatto all’arrivo e l’ultima prima di lasciare il Paese è stato toglierci le scarpe per visitare un tempio Buddhista.
Un atto di delicatezza simile all’omaggio e al rispetto che un giovane rende al più anziano per il solo fatto che occupa gli spazi da più tempo.
Togliermi le scarpe è una fatica che ho imparato a fare volentieri, con piena consapevolezza. Quell’atto fisico ci fa piegare, prima di entrare nel luogo sacro ai buddhisti, e a piedi nudi ci prepara a calpestare un pavimento solcato da mille altri piedi simili ai nostri, ma non uguali. In silenzio, godiamo della libertà, non scontata, di ammirare dall’interno e dal vivo un’arte e una ritualità che non ci appartengono, ma di cui riconosciamo il valore.
E così, in tutte le chiese thailandesi in cui abbiamo celebrato l’eucarestia, le scarpe ce le siamo tolte.
Personalmente nutro la speranza che il nostro passaggio sia stato un seme per coloro che abbiamo incontrato e per i nostri connazionali che restano. Se la nostra presenza avrà contribuito ad allargare qualche porta, a rimuovere qualche timidezza, a creare le basi per una confidenza maggiore, allora anche noi saremo stati mediatori e non semplici osservatori.
E se i bisogni di salvezza della comunità cattolica thailandese sono simili ai nostri, ma non coincidenti, anche questo allarga il cuore: siamo figli di uno stesso Padre, con bisogni simili e qualche specificità che è bello conoscere e approfondire, perché a restare in superficie si rischia di fermarsi al pregiudizio, di pensare che tutto debba ruotare attorno a noi.
La geografia di Dio sembra avere un baricentro diverso dal nostro.
Questa avventura formativa mi ha arricchito di nuove amicizie e di nuove esperienze. Ciascuno di noi ha un ruolo importante nel costruire relazioni di qualità, un dialogo con gli altri che sono tutti diversi da noi, anche quando credono negli stessi valori e nello stesso Dio.
Penso allora al dialogo come al filo della conoscenza che metto in un ago e, usando gli occhiali da vista, faccio passare da un lembo all’altro di un tessuto. Un esercizio di cucitura tra tensioni diverse, anche opposte, ma è un esercizio che richiede fatica e pazienza. Da un lembo all’altro, il filo collega, unisce, ma non annulla le differenze, crea un punto di contatto, a seconda di quanto tiro il filo. Mi impegno a fermarmi, a sostare con lo sguardo. Dedico del tempo consapevole a piccoli e semplici gesti. Ci metto fantasia e creatività in quello che faccio, ma anche studio e approfondimento. Il tessuto della pace non ha bisogno che io sposti le lancette dell’orologio, ma ha sicuramente bisogno che io metta gli occhiali perché miope sono sempre stata, ma sono diventata anche presbite.
Silvia Fattore
Nella foto: Silvia Fattore alla Fondazione “Laudato si'” con don Bruno Rossi.